E’ un Primo maggio di crisi quello che celebriamo quest’anno. Per gli italiani oggi, il lavoro non è un diritto sancito dalla costituzione, ma un privilegio che appartiene a pochi. Gli ultimi dati forniti dall’Organizzazione internazionale del lavoro sono allarmanti: in Italia la disoccupazione tocca il 9,7% e a patire in modo significativo di questa grave recessione sono soprattutto i giovani, il 32,6% dei quali è senza lavoro. Sin dal suo avvento il racconto cinematografico si è occupato di lavoro e delle problematiche condizioni dei suoi protagonisti, anche se spesso più come contesto di ambientazione ad altre storie con maggiore appeal sul pubblico, che come soggetto principale. Curiosamente, il primo film degli inventori del cinematografo, i fratelli August e Louis Lumière, “La sortie des usines” (1895), altro non era che una ripresa dell’uscita dalle officine Lumière delle operaie e degli operai alla fine di una qualunque giornata lavorativa; ma quando parliamo del binomio cinema-lavoro, il film emblema non può che essere “Tempi Moderni” (1936), una satira sociale che attraverso l’ironia sensibile di un genio della comicità come Charlie Chaplin critica l’assoluto dominio delle macchine sull’essere umano, e il conseguente stato di alienazione, omologazione e sfruttamento dei lavoratori nella nascente realtà industriale americana.
A partire dal secondo dopoguerra, anche alcuni cineasti italiani hanno dedicato parte della loro filmografia alla questione lavorativa, con l’obiettivo più o meno esplicito di fare dei loro film una denuncia volta al miglioramento sociale. Tra le più significative pellicole che i registi italiani del secolo scorso hanno dedicato al mondo del lavoro e che hanno segnato per sempre l’immaginario collettivo, possiamo menzionare “Il ferroviere” (1956) di Pietro Germi; “Rocco e i suoi fratelli” (1960) di Luchino Visconti; “Il Posto” (1961) di Ermanno Olmi; “I compagni” (1963) di Mario Monicelli; “La classe operaia va in paradiso” (1971) di Elio Petri. Per arrivare ad un epoca più recente, le difficoltà che attraversano il mondo del lavoro e la precarietà esistenziale hanno abitato il cinema soprattutto attraverso il dramma della generazione dei 25-30enni, i più colpiti dalla crisi, che nonostante gli anni passati a sgobbare sui libri per ottenere il famoso “pezzo di carta” sono descritti come eterni precari, privi di intraprendenza, e senza possibilità economiche di progettare il proprio futuro. Un quadro più che verosimile spesso smorzato dai nostri autori con toni leggeri che ne tradiscono una discendenza diretta dalla commedia all’italiana di Risi e Monicelli.
Ne è un esempio calzante “Tutta la vita davanti” (2008) di Paolo Virzì, surreale commedia che usa allegria e umorismo per affrontare di petto il tema del precariato declinato al femminile. Protagonista è Marta (Isabella Ragonese), una giovane e brillante neo-laureata in filosofia che sogna di lavorare in una casa editrice, ma senza le “conoscenze” giuste si trova costretta a lavorare in un call-center. Tra canzoncine e balletti del buongiorno stile villaggio vacanze, e colleghe agguerrite disposte a tutto per mantenere il loro posto da 400 euro al mese e conquistarsi il premio della migliore centralinista della settimana, l’ingenua Marta scopre una realtà fatta di mobbing e sfruttamento. Dal 2008 – anno di produzione del film – ad oggi, la situazione lavorativa per i neo-laureati italiani è cambiata, ma in peggio. Tanto che il film di Virzì, con un finale tutto sommato quasi speranzoso, dopo quattro anni risulta già drammaticamente anacronistico. Come anacronistico è pure il titolo del film di Massimo Venier “Generazione 1000 euro” (2009), altra pellicola in cui emerge il sistema del precariato come nuovo stile di vita. Tratto dall’omonimo romanzo di Antonio Incervaia e Alessandro Rimassa, la storia è quella di quattro ragazzi Matteo, Francesco, Beatrice e Angelica che incarnano quattro modi diversi di vivere e affrontare il precariato. Senza nessun vittimismo ma con sarcasmo, ottimismo, energia, grinta e voglia di far carriera. Sentimenti che non appartengono purtroppo ai neolaureati di oggi che tra contratti a progetto, lavori a nero, stage sottopagati se non gratuiti, e il posto fisso che come dice anche il premier Monti non esiste più, i 1000 euro a fine mese se li sognano solo la notte.
La crisi economica però non colpisce solo i giovani o i lavoratori che hanno perso il lavoro, se spostiamo il punto di vista dall’altra parte della barricata, ci sono tanti piccoli imprenditori la cui attività è stata messa a dura prova dalle politiche di austerità del nuovo governo. Emblema di questa categoria che si tende quasi ad ignorare, se non quando si ha notizia di un aumento spropositato di suicidi, è Nicola (Pierfrancesco Favino) protagonista de “L’Industriale” (2012) il nuovo film di Giuliano Montaldo che mette in luce, adottando una prospettiva inedita e un tono decisamente più cupo e drammatico, l’angoscia vissuta da tanti industriali medi dell’Italia di oggi che ogni giorno stringono i denti e lottano per non veder naufragare l’azienda in cui hanno speso gran parte della loro vita.
Enrica Raia
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