Lustri e lustrini per le star a Los Angeles. Nella splendida cornice della notte degli Oscar – dove nulla viene lasciato al caso – spicca il premio per il miglior cortometraggio documentario. Firmato da Sharmeen Obaid Chinov e Daniel Junge, “Saving face” racconta la storia di donne sfregiate dall’acido in Pakistan e che si trovano a dover “perdonare” il proprio aggressore perché trattasi della famiglia di “accoglienza”. Strana chiamarla accoglienza visti gli sfregi che vengono mostrati. Sono Zakia (39 anni) e Rukhasana (23 anni) le due protagoniste. È attraverso la missione del dr. Mohammad Jawad, rinomato chirurgo plastico, che vengono raccontate le due realtà – molto simili. Entrambe aggredite dal marito, Rukhasana ha visto la mano anche dei suoceri nell’aggressione.
Il cortometraggio documentario affronta un problema che viene denunciato da decenni e solo negli ultimi anni le fotografie di queste donne violentate della loro forma e personalità. Sì, perché l’aggressione con gli acidi spesso non uccide, ma lascia cicatrici e danni non sempre visibili. Obiettivi primari sono la testa e il viso, affinché le vittime vengano sfigurate, accecate e mutilate. Percentuali da brivido per le vittime preferite: 80 percento donne e 20 percento bambini. Meno del 50 percento non arriva ai 18 anni. Numerosi i casi da portare come esempio. Quello di Ameneh Bahrami fece scalpore perché perdonò il suo aggressore, condannato a subire le stesse violenze.
Si tratta, comunque, di un fenomeno che non ha preferenze di razza e religione. Si verifica maggiormente in India, Pakistan, Cambogia e Afghanistan – ma numerosi attacchi sono stati denunciati anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Numerose sono anche le motivazioni che spingono gli aggressori. Dalla proposta di matrimonio rifiutata all’incapacità di accettare un divorzio. Anche le violenze trasversali nazionali o di territorio possono essere delle cause scatenanti. Si vuole estirpare la bellezza. Si vuole estorcere la dignità dalla donna per farla rientrare nei parametri in cui la persona deve “appartenere” all’uomo e attenersi ad un determinato tipo di rispetto verso quest’ultimo. L’emarginazione è il risultato unico a cui si ispira e che, purtroppo, è anche quello più frequente. È un fenomeno sociale che andrebbe analizzato nella sua interezza e non limitandosi al singolo caso. L’Occidente non è abituato a queste immagini. Noi non riusciamo a concepire determinate violenze determinate dalla disuguaglianza di genere.
“Saving face” è – come si legge – uno strumento fondamentale per porre fine alla violenze con l’acido ce si verificano in Pakistan e altrove. Deve essere un vero e proprio supporto alla campagna di sensibilizzazione, “deve essere più di una denuncia di crimini orrendi, deve essere una ricetta per affrontare il problema e una speranza per il futuro”. Queste le parole di Daniel Junge, co-regista insieme a Sharmeen Obaid Chinov. Il cortometraggio documentario vuole essere una finestra su questo mondo, una finestra lasciata – per troppo tempo – socchiusa. Il recupero delle donne sottoposte a questi crimini è lungo ed è proprio questo che mostra Saving Face. Non solo da un punto di vista fisico. Il lato emotivo e quello psicologico, infatti, preoccupano maggiormente il totale ripristino della voglia di vivere della persona. Viene denunciata, inoltre, la mancanza di azioni di governo per la protezione delle vittime e per una definitiva forza legislativa volta a rendere crimini questa assurda barbarie.
Roberta Santoro
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