Immaginate di avere quindici anni.
Immaginate una vita normale, una quotidianità fatta di gesti rituali e consuete abitudini, ma anche di sogni, aspirazioni, le innocenti fughe immaginifiche di quell’età adolescenziale. Ricordate i vostri quindici anni? La genuinità dei pensieri, la spontaneità delle amicizie, i primi batticuori; la sensazione di avere tutta una vita davanti, la fame della scoperta, la brama di crescere e diventare grandi. E poi i dubbi, le insicurezze, i segreti nascosti tra le pagine dei diari; la paura di sbagliare, di non essere accettati. La ricerca incessante della propria identità, la voglia di trovare un posto nel mondo.
Immaginate che a un tratto tutto questo debba finire.
Ci avreste mai pensato a quindici anni? A quell’età la vita è talmente trascinante, e la si vede snodarsi tanto lunga e tortuosa e affascinante, che nessuno pensa mai alla morte; almeno non come una possibilità concreta, ma come una remota, lontana occorrenza.
Sarah Scazzi aveva quindici anni quando è stata uccisa.
E, come tutte le quindicenni del mondo, viveva la sua vita di attese e sospiri.
Quindici anni sono davvero pochi per morire. Eppure è accaduto; accade, e continua ad accadere. Ovunque.
La gente ne resta ogni volta stordita, disgustata, amareggiata. Come se l’indignazione fosse direttamente proporzionale alla quantità di vita che è andata persa, al mare di opportunità, all’oceano di esperienze che una ragazzina che muore a quindici anni non potrà mai avere. Soprattutto se si viene a scoprire che a stroncare la sua vita sono state le persone a lei più care, di cui Sarah si fidava, o meglio avrebbe dovuto fidarsi: l’indignazione tocca allora i livelli di una furia cieca, da vomitare tutta addosso agli assassini.
Che Sarah Scazzi sia stata uccisa in modo brutale, e probabilmente per motivi talmente banali da rendere ancor più orrorifica la circostanza della sua morte, è un fatto che nessuno può e vuole negare; ma ciò che appare ancora più inquietante dinanzi a ogni delitto crudele e efferato, è la reazione di una collettività che resta basita, ogni volta come fosse la prima, esasperata dinanzi a un’escalation di violenza che essa stessa è impreparata a prevenire e ad affrontare.
La morte è un fatto incontrovertibile: ci capita sotto gli occhi, a portata di orecchi, tutti i giorni.
La morte è un fatto all’ordine del giorno.
Eppure, le condizioni in cui essa si verifica cambiano l’immagine che abbiamo della morte. In alcuni casi esse diventano i baluardi incrollabili, le possenti mura di cinta all’interno delle quali i media si occupano di forgiare l’opinione pubblica, i tracciati affidabili e sicuri in cui incanalare attenzione e curiosità della massa.
La morte, avvenuta in circostanze inusuali, oggettivamente rivoltanti per ogni essere umano, viene allora privata del suo significato umano, spogliata di quella dimensione di pietas e compassione per una vita che viene ingiustamente stroncata; l’immagine della morte si veste allora di un falso moralismo, figlio del senso comune, e se ne va in giro al servizio di un malcelato voyeurismo, del meccanismo disumano dell’audience.
Il popolo può così guardare senza essere visto, grazie alla complicità di quelli che amano definirsi giornalisti, e in nome della loro professione sputtanano il riserbo del dolore per qualche plastico o per una ricostruzione filmata della scena del crimine, nascondendosi dietro al velo di un presunto disgusto che giustifica l’interessamento morboso verso tutte le circostanze della morte, ma anche della vita della vittima: ed ecco apparire i diari di Sarah, che vengono letti pubblicamente; i filmati che la mostrano felice e sorridente nelle più svariate occasioni vengono proiettati da tutti i salotti televisivi; l’”angelo di Avetrana” sorride mite da ogni angolo dei giornali, per ricordare a tutti quanto fosse buona e bella, e quanto sia stato efferato il suo assassinio. Mentre il suo corpo ormai smembrato viene ritrovato in un pozzo, e il suo ricordo stenta a trovare pace. La vita intima di una ragazzina di quindici anni viene esposta alle luci della ribalta; sui suoi legami affettivi, sulla sua normale attrazione adolescenziale per un amico vengono disegnati intrecci e avanzate ipotesi degne di una telenovela.
La morte, inattesa, incomprensibile, ingiustificata, trasforma la vita assolutamente normale di una teen-ager in un reality show dalle tinte fosche in cui scoprire l’intrigo diventa morbosamente più importante che smascherare l’assassino. Sarà il pubblico a votare, a scegliere “chi eliminare”. Lo zio mostro? La cugina psicopatica? Poco importa. Quello che conta è dare alla gente qualcosa di cui parlare. Per assolvere ai bisogni di una società affamata di emozioni reali, a cui la catarsi offerta dalla finzione non basta più per sentire di esistere.
Ripensate ora ai vostri quindici anni.
A chi eravate, a chi vi sarebbe piaciuto diventare.
Pensate alla vostra vita, che dopo un’ingiusta, terribile fine viene messa in piazza, denudata, violata, affinché l’esimia opinione pubblica possa frugare nei suoi più intimi anfratti, trarne arzigogolate congetture col pretesto di cercare un’ineffabile Verità. Senza rispetto né per la morte che vi è toccata, né per la vita che avete avuto.
Pensate a Sarah come a vostra figlia, o a vostra sorella.
Se certo la perdita di una persona cara è l’ultimo evento che si può desiderare che accada, pensare che la morte la trasformi istantaneamente in una postuma celebrità da Grande Fratello è indubbiamente ciò che non si sarebbe mai ritenuto umanamente possibile.
Giuliana Gugliotti
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