La pettinatura che l’ha resa famosa in tutto il mondo, una grossa treccia bionda avvolta intorno al capo, non ce l’ha più, Julija Tymošenko, e con quella sembra aver perso anche tutto il suo mordente. Sul suo volto è comparsa invece un’aria affranta e sofferente che non le si addice, l’aria di chi da una settimana non mangia per protesta.
Ha cominciato uno sciopero della fame, Julija Tymošenko, ex premier ucraina detenuta dallo scorso ottobre con l’accusa di corruzione e falsificazione di atti pubblici, per denunciare i maltrattamenti subiti in carcere. E immediatamente la sua ribellione silente ha trovato l’appoggio della politica internazionale, a cominciare da Angela Merkel. “Se Julija Tymošenko non sarà liberata prima dell’inizio degli Europei 2012 non assisterò a nessuna partita in Ucraina” ha dichiarato la cancelliera tedesca. È il sostegno pubblico di una donna che sa cosa significa stare in politica a un’altra donna che dalla politica negli ultimi anni ha ricevuto soltanto colpi bassi.
Condannata a sette anni di reclusione con l’accusa di aver stipulato un contratto coi russi per una fornitura di metano senza chiedere l’approvazione del Governo, Julija Tymošenko sta pagando in prima persona lo scotto di una politica nazionale oligarchica e conservatrice, che sembra ancora troppo debole per portare avanti il processo di distacco dell’Ucraina dalla madre Russia.
Che il metano sia stato una gallina dalle uova d’oro per lady Julija non è certo un mistero. Prima di entrare in politica la Tymošenko aveva fatto ottimi affari nell’industria energetica durante gli anni della privatizzazione, diventando nel giro di un decennio una delle donne più ricche e influenti del pianeta. La “principessa del gas”, la chiamavano quando era ancora un’industriale, per l’abilità con cui, durante gli anni ’90, era riuscita a convincere Putin a esportare in Ucraina enormi quantità di metano dalla Russia – una fornitura pagata cara e amara con l’aumento delle tasse e nell’ottica di un conservatorismo filosovietico.
Quando decise di entrare in politica, però, la Tymošenko lo fece coi democratici. Una “conversione” riformista che il popolo elettorale giudica tuttora sincera. Da industriale conservatrice a leader politica rivoluzionaria, la Tymošenko appoggiò la campagna elettorale di Viktor Juščenko, capo dell’opposizione che dieci anni fa tentava di prendere il potere scalzando la maggioranza filorussa guidata dal duo Kučma –Janukovyč, accusata di brogli elettorali. A quegli anni (2001) risalgono le prime accuse di corruzione alla leader democratica, confermate da documenti che secondo la Tymošenko sarebbero stati falsificati dallo stesso partito di Kučma per mettere in piedi una macchina del fango volta a danneggiare la sua credibilità. La leader del Blocco fu arrestata con l’accusa di importazione illegale di metano dalla Russia, ma in quell’occasione le proteste dei suoi sostenitori contribuirono a farla liberare nel giro di una settimana. Poco dopo rimase coinvolta in un incidente che secondo alcuni sarebbe stato un tentativo di omicidio politico.
Ma Julija non si arrende, e nel 2004 è protagonista della Rivoluzione Arancione, che vide la gente scendere in piazza per affermare il diritto a scegliersi democraticamente i propri rappresentanti politici indipendentemente dalle influenze politiche sovietiche. La sua partecipazione alla ribellione la dipinse agli occhi dell’opinione pubblica come un’eroina rivoluzionaria, la Giovanna d’Arco e la “pasionaria” dell’Est. Così, quando l’esito della rivoluzione condusse Juščenko alla presidenza del governo, la Tymošenko assunse la carica di primo ministro.
Da allora una sequela di campagne elettorali in un paese dai governi instabili la portò nuovamente, nelle elezioni anticipate del 2007, sul seggio della presidenza dei ministri grazie a quella che sembrava una indissolubile alleanza con Juščenko Presidente. Alleanza che invece si è incrinata nel 2008, a causa della crisi politica con la Georgia durante la guerra nell’Ossezia del Sud, e che ha portato a un inevitabile declino.
Il tradimento di Juščenko, che ha fornito prove decisive per l’accusa durante il processo alla leader riformista è forse l’aspetto meno inquietante di una vicenda che sembra nascondere interessi politici molto più ampi.
“Ho sempre lavorato nell’interesse dell’Ucraina!” ha gridato disperata la leader riformista prima che i poliziotti la portassero via lo scorso agosto. E la gente le crede, perché fino a febbraio i sondaggi le accreditavano il 35% dei consensi, ben 15 punti percentuali in più rispetto al 20% della maggioranza attualmente in carica guidata dal Presidente Janukovyč. Una popolarità che non garba affatto a Janukovyč, deciso a esautorare la Tymošenko dalla politica nazionale. E la macchina del fango si rimette in movimento, azionando stavolta le leve di una giustizia la cui imparzialità inizia ad essere messa in discussione.
Giuliana Gugliotti
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