Inizio istituzionale per una sciocca barzelletta che ci raccontiamo da anni. Art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Strane le coincidenze per le quali il Paese sembra stia perdendo la sua identità, la democrazia sia un optional e il lavoro oramai sia fondato su contratti a progetto e a tempo determinato (quando, ovviamente, non siano “a nero”). Di dubbia efficacia per la verificabilità dei dati è considerare come “soggetto occupato” anche quello che tra tre mesi, per contratto, non lo sarà più. Purtroppo esiste il buono e cattivo di una particolare visione delle cose. Certo appariamo al mondo con un tasso di disoccupazione decisamente inferiore rispetto al reale “danno” che siamo costretti a portarci dietro, ma chi ci rimette, nonostante una classificazione dei dati controversa, è il giovane. Quest’ultimo rappresenta la categoria dell’inoccupato e del disoccupato. Circa il 28,9%, secondo dati ISTAT, è senza lavoro. Il 10% è tutto femminile.
Osserviamo la situazione nel complesso per poterne trarre alcune conclusioni. A settembre 2010 si è registrato un tasso di inattività pari al 38,6% della fascia compresa tra i 15 e 64 anni. L’anno 2009 aveva chiuso con circa il 32%. Il Nord e il Centro non raggiungono il 35%, mentre il Sud sfiora in positivo il 50%. Ma a far riflettere sono i dati sulla disoccupazione femminile, che attraversa il Centro-Nord con il 24,7% e raggiunge il Sud Italia con il 36%.
Le donne da sempre hanno ricoperto il ruolo assegnatogli come “dedite alla famiglia” e, nonostante questo, si sono fatte strada in un mondo del lavoro prettamente maschile. Le discriminazioni subite sono ancora piuttosto frequenti, ma il “soggetto debole” ha imparato ad essere più freddo e calcolatore dell’uomo sul lavoro. L’indagine condotta a partire dal 2001 e per gli otto anni successivi dal Cofimp (Consorzio per la formazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese) ha evidenziato nella donna un calo di empatia e di sensibilità, nonché di cordialità sul lavoro. Tutti elementi questi che ci permettono di tirare le somme sull’attuale condizione della donna.
Lavoro o famiglia. Nessun errore in queste tre semplici parole. Pochi i margini di flessibilità sul posto di lavoro, che non permettono la crescita di una realtà familiare stabile. Poche le occupazioni che rendono possibile il sogno di molti giovani, in quanto la percentuale più alta deve vivere e crescere nella precarietà. Qualora la fortuna vi abbia baciato con un lavoro a tempo indeterminato che vi permetta di allargare la famiglia, ecco che arriva il problema per le donne di crescere i loro bambini. Le dimissioni della mamma, secondo dati ISTAT, arrivano nel primo anno di età del figlio con la stessa motivazione per il 48,5% dei casi: “incompatibilità tra occupazione lavorativa e assistenza del neonato”.
Molteplici le motivazioni per una scelta così drastica. In primis prevale la componente economica. Un asilo nido o una baby sitter a tempo pieno costa quasi quanto un mese del “lavoro di oggi”, risultando così una scelta sconveniente e poco intelligente. Inoltre la precarietà spinge la donna, già emotivamente provata dal distacco dal figlio neonato, a rinunciare ancora più volentieri ad un contratto senza futuro. In più molte aziende non tengono conto delle reali necessità innanzitutto del piccolo e, in seconda battuta, della mamma, per i primi mesi dopo la maternità. Purtroppo, per quanto qualcosa sembri muoversi nell’aria, l’Italia rimane uno dei Paesi maggiormente industrializzati la cui stessa politica discrimina la donna, e soprattutto la mamma che lavora.
Roberta Santoro
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