Milano, 1628. Scoppia la rivolta del pane. La siccità, la guerra e l’incapacità gestionale dei governanti portano a un rincaro dei prezzi del pane. Il popolo esasperato assedia prima i forni, poi si reca a far giustizia a casa del vicario.
Tunisi, 2011. Scoppia la rivolta del pane. Gli incendi in Russia, le inondazioni in Australia e la siccità in Argentina, da sole sono bastate, senza scomodare la menzione di guerre e malgoverno, a danneggiare i campi e ridurre i raccolti, provocando un conseguente aumento dei prezzi dei generi di prima necessità.
I secoli sono passati, ma niente sembra cambiato. Le tecnologie hanno senza dubbio fatto passi da gigante, e la globalizzazione dei mercati ha facilitato i commerci internazionali, certo. Proprio per questo una crisi alimentare oggi non può restare confinata in un singolo Stato, ma si trova ad assumere una portata mondiale.
Alessandro Manzoni, ne “I promessi sposi” ci ha regalato una descrizione suggestiva, nonché politicamente valida, degli avvenimenti che caratterizzarono la rivolta del pane milanese del 17esimo secolo. Oggi, alla luce dei recenti avvenimenti in Maghreb, quella descrizione appare più che mai verosimile e attuale. Poche sono le differenze, molte le somiglianze tra la cronaca romanzata e la realtà odierna: se nel lontano milleseicento la scintilla che appiccò le fiamme della rivolta fu la vista di alcune sporte di pane caldo trasportate da un garzone, oggi, nell’era moderna, a far esplodere il fuoco della protesta è stato un carretto di legumi, sequestrato a un giovane laureato/ambulante tunisino senza licenza, che, in mancanza di una occupazione più consona al suo titolo di studio, cercava di sbarcare il lunario alla men peggio. Il giovane, esasperato dall’ennesima difficoltà, raggiunge il Municipio della sua città, Sidi Bouzid, e si dà fuoco in segno di protesta. Morirà due settimane dopo, il suo esempio seguito da molti altri disperati, mentre in Tunisia già impazza la rivolta, e il numero dei morti aumenta, arrivando, secondo le stime più ottimistiche, ad almeno cinquanta anime. Poi, come nell’episodio di manzoniana memoria, la furia del popolo inizia a dirigersi verso i ricchi e i potenti. E nessuno meglio dei congiunti del Presidente Ben Ali, in carica da oltre 23 anni (molto, troppo tempo perché sia ancora possibile parlare di democrazia) riesce a incarnare il simbolo di un divario sociale che ha ormai assunto le proporzioni di un baratro: un nipote e un cugino del Presidente vengono uccisi a coltellate, i loro palazzi saccheggiati, mentre Ben Ali, ben lungi dall’essere equiparato al buon manzoniano Ferrer, piuttosto che impersonare il ruolo dell’uomo risolutore preferisce mettere in salvo la pelle, anche a costo di recitare la parte del vigliacco, e ripara in Arabia Saudita. Perché si sa che quando un vulcano, da anni quiescente, decide di eruttare, le conseguenze possono essere devastanti. Un gesto estremo e inatteso, quello di Ben Ali, che non ha mancato di provocare altri danni in un governo già mezzo sfasciato, provocando il decesso per infarto di Abdelaziz Bin Dhiya, consigliere e portavoce del presidente, morto letteralmente di crepacuore dopo aver appreso la notizia della sua fuga.
Intanto la miccia della rivolta non si spegne, anzi percorre lesta chilometri e chilometri fino a raggiungere l’Algeria, dove il Primo Ministro Ahmed Ouyahia, fiutando il pericolo, tenta immediatamente di raffreddare gli animi annunciando una riduzione del 41% dei prezzi di grano e olio – da ottenersi grazie alla sospensione di diritti doganali, IVA e imposta sui profitti – nonché una loro permanente stabilizzazione. Ma la rivolta non si arresta: pochi giorni dopo tocca alla Giordania fare i conti con 5000 manifestanti, che giovedì scorso sono scesi in piazza ad Amman per protestare contro il rincaro dei prezzi dei generi di prima necessità, mentre Marocco, Egitto e Sudan iniziano a tremare. E se il governo di El Cairo, memore delle proteste “alimentari” del 2008, è immediatamente corso ai ripari acquistando mucche dall’Etiopia e aumentato l’importazione di carne dal Kenya, la questione si fa più complessa a Karthoum, dove la protesta contro l’aumento dei prezzi di alcuni studenti universitari arriva in un Sudan già alle prese con un referendum secessionista. Referendum che ha catalizzato non poco l’attenzione di USA e Cina, visto che una vittoria dell’ala scissionista comporterebbe l’indipendenza di un Sud povero, anzi poverissimo in canna, dove buona parte della popolazione muore letteralmente di fame, ma ricchissimo di petrolio, un petrolio di cui la Cina è oggi la migliore acquirente, ma su cui, in questi tempi di penuria, nessuno scommetterebbe che non abbiano puntato gli occhi anche gli USA. Sarà forse questa la ragione per cui, quando il presidente sudanese Omar Bashir, incalzato dalla minaccia della rivolta della denutrizione popolare, ha chiesto la cancellazione di un debito di 39 miliardi di dollari con l’estero, l’ex Presidente statunitense Jimmy Carter, peraltro incaricato di monitorare il corretto svolgimento del referendum secessionista, ha dato parere favorevole dichiarando: “Non vedo nessuno nella lista dei creditori che non possa permettersi di condonare il debito”. D’altronde, già in precedenza Washington aveva considerato la possibilità di sospendere i debiti sudanesi a fronte di un “pacifico e regolare” svolgimento del referendum. E se in Tunisia la rivolta del pane pare intrecciarsi a motivazioni di ordine politico, in Sudan la stessa rivolta sembra svolgersi prevalentemente sullo scacchiere petrolifero.
La più grande bizzarria in tutta questa faccenda è che la Fao aveva già previsto tutto nel 2008, nel consueto rapporto annuale sulla fame nel mondo, in cui si legge non solo che il numero complessivo delle persone sottonutrite nel mondo è aumentato in un anno di 40 milioni, fino a sfiorare il miliardo, ma anche che “se i prezzi più bassi e la stretta creditizia associati alla crisi economica costringeranno gli agricoltori a diminuire le semine, l’anno prossimo potrebbe verificarsi un’altra drammatica ondata di prezzi alimentari alti”, e che “la situazione potrebbe ulteriormente deteriorarsi man mano che la crisi finanziaria colpirà le economie reali di nuovi paesi”. Una tragedia annunciata dunque? Forse, anche se come testimoniano svariati missionari, la fame e le carestie in Africa sono compagne di vita costanti, spauracchi con cui lottare quotidianamente. Come afferma Padre Albanese, missionario comboniano, la rivolta del pane è prima di tutto una questione economica: “Un po’ tutti i paesi del nord Africa stanno attraversando momenti difficili e c’è un forte malcontento soprattutto nei ceti meno abbienti che in molti casi rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione. Il paradosso è evidente. Stiamo parlando di nazioni che hanno fonti energetiche (vedi il petrolio del Sudan, ndr) con grandi potenzialità che però non riescono a rispondere a quelle che sono le istanze della gente. E da questo punto di vista io credo che il tema abbia a che fare ancora una volta con quelle che sono le relazioni tra nord e sud del mondo, ovvero tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo”.
E mentre molti già gridano alla strumentalizzazione islamista della rivolta o preannunciano il temuto aumento dei flussi migratori verso l’Europa, nessuno pare preoccuparsi del fatto che la crisi alimentare abbia colpito, prima di tutti gli altri Paesi, la più “ricca e avanzata” Tunisia, che a differenza di altri Stati africani può vantare un’economia turistica invidiabile e uno sviluppo industriale che si avvicina ai livelli occidentali, pur essendo concentrato prevalentemente al Nord, nelle zone marittime. E se stavolta la crisi non si arrestasse davanti alla mera distinzione tra paesi sviluppati e sottosviluppati, tra Nord e Sud del mondo? La Tunisia non è poi così lontana dall’Italia, e niente assicura che la rivolta del pane non possa “migrare” oltre il Mediterraneo. Soprattutto alla luce di una considerazione: se l’Europa non importa né esporta cereali, provvedendo autonomamente alla propria sussistenza, l’Italia fa eccezione a questa politica, ed è il primo Paese Europeo importatore di frumento. E, con l’aumento vigente dei costi di produzione dei cereali, i prezzi del pane potrebbero lievitare anche da noi. Fino a ridurre ulteriormente il numero di persone che potranno permettersi di beneficiare di un prodotto che, come il petrolio e l’acqua, inizia anch’esso a scarseggiare: il pane.
Nessuna considerazione pare quindi più appropriata di questa felice frase del Manzoni: “Ora è scoperta, – gridava uno, – l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era né pane, né farina, né grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza!”
Giuliana Gugliotti
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