Lamiere accartocciate, resti di quella che era stata un’automobile. Carcasse di metallo fumanti, roghi di benzina sui marciapiedi, le facce attonite dei poliziotti davanti a una strada devastata. Ce le ricordiamo tutti, queste immagini, anche noi che in quegli anni eravamo bambini. La scena del crimine non è quella di un attentato moderno, ma quella di un’esecuzione in piena regola. Non kamikaze che si fanno esplodere in mezzo alla gente, ma sicari. Che programmano con dovizia di particolari un assassinio su commissione. Della mafia.
Paolo Borsellino si svegliava presto, molto presto, al mattino. Per fregare il mondo con due ore di anticipo, diceva. Ma tanto lui lo sapeva, di dover morire. 57 giorni di agonia, dall’omicidio del collega e amico Giovanni Falcone, nell’attesa che la sua condanna a morte venisse eseguita. Quel giorno – quel 19 luglio 1992 – era andato a trovare sua madre. Era domenica mattina, ma questi non sono dettagli importanti. Quando sai di dover morire, ogni giorno equivale all’altro, e le notti si susseguono, forse insonni, tormentose, una dietro l’altra e tutte uguali, come catene interminabili di soffocante angoscia.
Paolo Borsellino nasce a Palermo nel 1940. A ventitré anni è già magistrato, il più giovane d’Italia. A trentanove è a capo di un’inchiesta sui rapporti tra mafia e politica nella gestione degli appalti pubblici. Sono gli anni della faida, gli anni ’80 che portano al potere i corleonesi di Totò Riina. È in quell’anno che si costituisce il primo pool antimafia della storia. Sotto la guida di Rocco Chinnici si riuniscono una rosa di magistrati che lottano quotidianamente contro la mafia. Per aiutarsi a vicenda nella battaglia contro un Cerbero dalle mille teste, che allunga i suoi tentacoli ovunque, ed è ancora in buona parte un mostro inesplorato.
Di quella squadra Falcone e Borsellino erano leader indiscussi. Più volte chiesero l’intervento di uno Stato che non arrivò. Poi, nel 1988, la nomina di Antonino Meli suscitò una serie di perplessità tra i magistrati del pool. Borsellino tornò a Marsala, dove continuò a lavorare nell’antimafia. Ma il richiamo della città natale lo spinse pochi anni dopo a richiedere il trasferimento a Palermo, dove fece ritorno nel dicembre 1991 come Procuratore aggiunto insieme al sostituto Antonio Ingroia.
A quell’epoca la sua condanna a morte era stata già decretata dagli altri vertici mafiosi. Il resto della storia la conosciamo. Da quel 19 luglio 1992 sono passati vent’anni. Vent’anni di lotta, dicono alcuni. Gli stessi che ieri commemoravano la morte di Borsellino, gli stessi che oggi sono tornati alla vita di sempre. Perché a nessuno piace pensare troppo a lungo alla morte. La mafia lo sa, ed è su questa certezza che edifica il suo potere. La morte fa paura, fa paura sentirne parlare. Fa paura chiedersi perché. Perché ci sono persone che muoiono, disposte a sacrificare la vita per i propri ideali. Persone come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Fa paura chiedersi se questa è giustizia. La gente dimentica in fretta. Preferisce tacere, continuare la vita di sempre. È la vincente strategia del terrore. L’omertà non di chi resta in silenzio, ma di chi parla solo una volta all’anno. Troppo poco. Davvero troppo poco. La memoria è importante, ma non basta. Per combattere la mafia bisogna agire. E, anche se le vie dell’azione sono tuttora misteriose, ricordare che il ricordo non è sufficiente, non basta davvero mai.
Giuliana Gugliotti
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