Oggi basta la sola parola a far rabbrividire: si dice “foiba”, e la mente corre veloce all’Istria, alla questione di Fiume e all’esodo dalla Dalmazia; l’immaginazione si spinge oltre i confini orientali dell’Italia moderna, raggiunge le montagne del Carso e si inabissa nell’oscurità di quei dirupi naturali che furono tomba per migliaia di italiani perseguitati dal regime filo-comunista della Jugoslavia di Tito. “Foiba” oggi è sinonimo di orrore; è sinonimo di morte, giustizialismo politico, pulizia etnica. Eppure la storia è stata ingiusta con le foibe. La storia è stata ingiusta con la memoria di un popolo che in quelle buie caverne ha trovato la morte. L’Italia è stata ingiusta coi propri connazionali, la cui unica colpa fu quella di trovarsi a vivere nei territori dell’Istria e della Dalmazia, regioni da sempre oggetto di controversie, definitivamente sottratte a un’Italia che usciva sconfitta dalla Seconda Guerra Mondiale, vessata da un fascismo ormai relegato alla corda e costretta a capitolare dinanzi alla tanto agognata liberazione Alleata. Ma la tragedia delle foibe non finisce con la Liberazione: la tragedia delle foibe continua, si protrae per anni nel misconoscimento dei governi italiani e internazionali dei massacri consumatisi, nell’occultamento di una storia che, a guerra finita, a nessuno andava di rivangare.
Il termine “foiba”, contrazione dialettale del latino “fovea”, “fossa”, viene utilizzato comunemente in tutta la regione della Venezia Giulia per designare delle caverne verticali, a forma di imbuto rovesciato, formatesi a causa dell’erosione dell’acqua che, penetrando in rocce permeabili, dolomitiche, ma più spesso calcaree, scava una serie di cunicoli lungo le linee di faglia della crosta terrestre, dando origine a vere e proprie voragini collegate tra loro da cunicoli sotterranei, che prendono il sinistro nome di inghiottitoi. Lungi dall’essere equiparabili ai campi di concentramento, che pure non mancarono nella Jugoslavia titina, le foibe sono in effetti delle fosse, spesso profonde centinaia di metri, non di rado culminanti in grotte sotterranee di stalattiti e stalagmiti; anfratti misteriosi e nascosti, di cui il territorio Carsico è disseminato a causa della sua composizione calcarea, che “la fantasia del volgo popolò di numerose leggende” (R. Battaglia). Ma i massacri delle foibe non sono solo racconti. Se qualcuno ha tentato in passato di occultare cadaveri scomodi nell’oscurità di quelle caverne, oggi i morti continuano a riaffiorare dagli abissi chiedendo giustizia, e parlare di leggenda non è più possibile: le foibe, che da sempre hanno attirato l’interesse dell’uomo come fenomeno naturale dalle cause misteriose, incutendo anche una sorta di timore nei confronti dell’ignoto che si celava nelle loro profondità, si sono davvero popolate di fantasmi, trasformandosi nel simbolo di un eccidio in piena regola, che tuttavia è passato sottosilenzio per cause storiche legate a interessi superiori. Ancora oggi è impossibile fare una stima di quante persone abbiano trovato la morte durante la pulizia etnico-politica perpetrata dall’Esercito di Liberazione Jugoslavo a danno dei cittadini italiani residenti nelle terre d’Istria e Dalmazia: ritrovamenti di cadaveri sono avvenuti fino al 2005, dopo sessant’anni dalle stragi, e gli archivi storici croati e italiani in merito restano blindati. Le stime più recenti parlano di almeno 10.000 morti, tra militanti fascisti ma anche pubblici funzionari e soprattutto civili, torturati e poi uccisi in vari modi, in parte gettati nelle foibe, da morti o da vivi, in gruppi di cinque o sei persone tenute insieme coi fili di ferro, le mani annodate dietro la schiena e una pesante pietra legata ai piedi. Ma le foibe sono anche simbolo di una più ampia rivalità tra sentimenti nazionalistici, sono l’emblema di un conflitto che nelle terre “irredente” durava da secoli, e che nella violenta degenerazione della fine della guerra trovò un apice terribile e sanguinario.
I massacri delle foibe rappresentano il triste epilogo di una lotta secolare per il dominio dell’Adriatico tra popolazioni di origine italica e slava, in particolare croate e slovene, ma anche serbe. La rivalità tra italiani e slavi ha origini molto antiche: la commistione tra i due popoli ha inizio nell’Antica Roma, quando la provincia latinizzata dell’Illiria viene invasa da popolazioni barbariche, subendo una contaminazione etnico-linguistica di matrice slava. La convivenza tra i due gruppi etnici inizia a diventare materia politicamente “calda” solo nel XIX secolo, quando l’avvento del concetto, prima relativo, di “nazionalità”, risveglia nei popoli oppressi da dominazioni straniere un sentimento nazionalpopolare che reclama a viva voce l’indipendenza dai grandi imperi multietnici e la nascita di Stati autonomi che rispecchino l’identità nazionale. L’Istria e la Dalmazia, da sempre patrie di popolazioni miste, furono soggette alternativamente a periodi di “slavizzazione” – in particolare sotto la dominazione asburgica, impegnata a contrastare l’emergere di un forte nazionalismo italiano – e “italianizzazione” – con l’avvento del Regime fascista – forzate: fu gettato così il seme dell’avversità tra i due popoli, da sempre in contesa per l’annessione di quella parte dei Balcani. Una contesa che fiorirà durante la Grande Guerra, vedendo trionfare l’Italia che riuscì a guadagnarsi l’annessione dell’Istria e della provincia dalmata di Zara con alcune isole, e darà i suoi frutti letali al termine della seconda guerra mondiale, culminando nei massacri delle foibe: dimenticata la collaborazione che i partigiani italiani offrirono ai cugini jugoslavi durante la Resistenza del “maresciallo” Tito, appoggiato dall’Unione Sovietica, la miccia dell’odio nei confronti degli italiani – pure macchiatisi di efferati crimini di guerra nei confronti dei popoli jugoslavi – esplose, infocata dalla contrapposizione ideologica fascismo-comunismo, e, non ultima, dalla brama di possesso dei territori balcanici, soprattutto dell’importantissimo snodo mercantile rappresentato dalla città di Fiume, che era stata dichiarata indipendente alla fine della prima guerra, dopo l’impavido, grottesco tentativo di occupazione italiana sotto la guida di Gabriele D’Annunzio, che passò alla storia come l’“impresa di Fiume”. A guerra finita, i soldati di Tito marciarono dunque verso l’Istria e Trieste, andando incontro agli Alleati, e travolsero nel loro passaggio migliaia di vite, proclamando un unico, inquietante messaggio: o la slavizzazione, o l’esodo. O la morte.
Un eccidio dalle caratteristiche anomale, che non fu mai un’operazione dichiarata di pulizia etnica – gli italiani non furono mai perseguitati apertamente per la loro “razza” – ma venne piuttosto interpretato come una rivalsa politica nei confronti di un Fascismo che era stato estremamente oppressivo con i popoli slavi, e che aveva avuto in quelle terre l’aiuto di svariati collaborazionisti, oppure come una jacquerie, una rivolta “popolare” dei contadini slavi, che abitavano soprattutto l’entroterra, contro la borghesia italiana, che invece popolava le città di mare dedicandosi al commercio. Molte migliaia furono gli italiani che lasciarono beni e possedimenti nelle fiorenti terre dalmate, oggi appartenenti alla Croazia, per riparare all’interno dei confini (quelli certi) italiani: quasi nessuno volle correre il rischio di restare apolide – il governo jugoslavo non riconosceva la cittadinanza italiana – in terra straniera e sotto un regime comunista. All’eccidio si accompagnò l’esodo. Quando gli Alleati varcarono l’Isonzo si trovarono dinanzi a città fantasma, abbandonate dagli abitanti in prevalenza italiani, fuggiti o infoibati, ora occupate dai soldati di Tito. Come in una sinistra partita a Risiko, la Jugoslavia s’era guadagnata il controllo su quelle terre.
Una vera e propria tragedia etnica, consumatasi sullo sfondo della guerra, che per anni è stata tuttavia insabbiata in ogni modo possibile, infoibata dagli stessi governi italiani, così come gli jugoslavi fecero coi nostri concittadini. Lo storico Gianni Oliva ha individuato una trama di almeno tre motivazioni politiche che furono all’origine del silenzio sulle foibe: da una parte, la volontà dello Stato Italiano di distogliere l’attenzione della popolazione dalle pesanti perdite territoriali subite in quelle zone; dall’altra, il rifiuto del PCI (Partito Comunista Italiano, ndr) di riconoscere l’efferatezza e la gratuità di quei crimini perpetrati all’insegna del Comunismo; infine, il desiderio delle potenze internazionali, primi fra tutti gli USA, di mantenere, soprattutto dopo la rottura tra Stalin e Tito, rapporti pacifici con la nascente Repubblica Jugoslava, che difatti svolse un ruolo centrale di Stato cuscinetto, in quanto Paese non allineato durante la Guerra Fredda. A farne le spese furono non soltanto le vittime “materiali” delle foibe, ma anche una comunità di 350.000 italiani smembrata dall’esodo forzato, ai cui discendenti lo Stato Italiano ha, in tempi recenti (1996), negato la restituzione dei beni illegalmente sequestrati ai suoi concittadini costretti alla fuga, firmando con la Slovenia un accordo di rinuncia alla rivendicazione. Bisognerà aspettare la definitiva caduta dei vecchi partiti della Prima Repubblica per iniziare a fare luce sui massacri delle foibe: se la foiba di Basovizza (TS) fu dichiarata monumento nazionale nel 1992, è solo nel 2005 che il governo italiano ha istituito una giornata in memoria dell’eccidio, che cade il 10 febbraio, giorno della firma del trattato di Parigi (1947) che assegnò alla Jugoslavia quelle terre conquistate con le armi; e solo nel 2007 il capo di Stato Napolitano ha riconosciuto la responsabilità dello Stato Italiano nell’ “aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”, iniziando forse a sollevare, per la prima volta da oltre sessant’anni, quel velo di silenzio che avvolge l’eccidio delle foibe, e a gettare una luce sinistra sugli innumerevoli cadaveri italiani che ancora giacciono, privi di sepoltura, negli anfratti del Carso.
Giuliana Gugliotti
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