Anche la questione libica è stata trattata dal Cavaliere alla sua maniera, forse in maniera troppo goliardica come ha fatto quando fece il cucù alla Merkel o quando definì il presidente americano un uomo affascinante e abbronzato, presupponendo che anche a livello internazionale la chiave per stabilire rapporti di intimità con gli altri capi di Stato risieda negli atteggiamenti camerateschi da collegiale.
Nel caso di Gheddafi questo modo di fare ha determinato risultati da commedia dell’arte, con manifestazioni poco decorose (leggi il baciamano) e spesso grotteschi.
Come conseguenza ci siamo dovuti sorbire le sue lezioni sul Corano fatte ad una selezionata e pagata platea di giovani e belle donne nostrane, oltre alle sue appariscenti guardie del corpo, e alla sua maleducazione e persino la tenda montata a villa Doria Pamphili.
Ora però se vogliamo dare un taglio serio a questa vicenda è inutile correre dietro al solito vagone di critiche che accompagnano ogni atto del presidente del consiglio da parte della solita sgangherata opposizione che non avendo altri argomenti ripete all’infinito la solita storia, vedi Di Pietro o Bersani, che come Gennaro Jovine della Napoli Milionaria di Eduardo, continuano a raccontare sempre la solita storia della guerra ormai passata a persone che ormai volevano guardare avanti e credere che prima o poi la nottata sarebbe passata e che un nuovo giorno con gente nuova avrebbe scritto altre pagine di storia. Gente nuova non certamente loro che come dice il sindaco di Firenze andrebbero rottamati in blocco, sia a destra che a sinistra.
Pertanto se vogliamo parlare della cosa seriamente dovremmo almeno ricordare che il presidente del Consiglio ha fatto, anche se con formule talora criticabili, quello che era stato tentato con minore successo da quasi tutti i suoi predecessori.
Quando Gheddafi, nell’estate del 1970, ordinò l’espulsione dei circa 15.000 italiani che vivevano allora nel Paese, il presidente del Consiglio fu dapprima Mariano Rumor, poi Emilio Colombo, ma il ministro degli Esteri in entrambi i governi fu Aldo Moro. Ci fu chi sostenne che occorresse reagire con energicamente, ma nessuno riuscì a precisare che cosa si dovesse intendere per «energia». Prevalse la linea di Moro, vale a dire la convinzione che l’Italia non potesse aprire una partita simile, per tutta una serie di motivi non ultimi quelli di natura economica che ormai ci legavano a quel Paese. Buona o cattiva, questa fu la linea politica di tutti i ministri degli Esteri italiani da Giulio Andreotti a Gianni De Michelis, da Lamberto Dini a Massimo D’Alema. Come in altre questioni l’Italia ha dimostrato che nella storia della politica estera soprattutto degli ultimi quarant’anni la continuità è molto più frequente della rottura. Ogni governo, quale che fosse il suo colore, ha cercato di negoziare con Gheddafi una specie di trattato di pace.
Conviene ricordare che non siamo stati i soli a negoziare con il Rais, i primi aerei dell’aeronautica militare libica, dopo il colpo di Stato, furono i Mirage francesi, successivamente fu la Germania che contribuì alla creazione in Libia di una industria chimica, e gli stessi americani, dopo avere inutilmente cercato di uccidere Gheddafi nel 1986, revocarono le sanzioni non appena il Colonnello rinunciò alle sue ambizioni nucleari. Anche la fiera Albione, nell’agosto del 2009, ha liberato e restituito alla Libia, per «ragioni umanitarie», il responsabile del sanguinoso attentato del dicembre 1988 nel cielo di Lockerbie. Ora, naturalmente, nessun governo europeo può astenersi dal condannare le violente repressioni di Bengasi e di Tripoli. Noi, in particolare, abbiamo il diritto e il dovere di alzare la voce contro Gheddafi e i suoi metodi. Ma cerchiamo almeno di farlo senza cogliere l’occasione per combattere una ennesima battaglia di squallida politica interna.
Nel momento in il terreno libico diventa rosso a causa del sangue versato da migliaia di giovani vite lo spettacolo che daremmo al mondo sarebbe veramente patetico.
Vincenzo Branca
Riproduzione Riservata ®