Era un fuoriclasse, e come tutti i fuoriclasse non le mandava a dire. Aveva un caratteraccio, ma solo quando si svegliava di cattivo umore. I giornalisti li trattava con sussiego; si fermava a parlare con loro solo se ne aveva voglia. Sennò li dribblava, come faceva coi suoi avversari.
Il 2 Ottobre ricorre l’anniversario della sua nascita, ma Omar Sivori aveva ben poco della Bilancia, segno zodiacale sotto il quale l’avrebbe voluto l’oroscopo. Io Omar Sivori l’avrei visto meglio come un Capricorno, volitivo e testardo, o come un Ariete, deciso e determinato. Un centravanti di sfondamento. Se non nello zodiaco, almeno nel pallone lo era davvero. Finte, dribbling, tunnel. Il suo modo di superare gli avversari rendeva giustizia al suo carattere, focoso ma serafico, un ghigno beffardo sempre dipinto in faccia. Come a voler prendere in giro l’antagonista, con spudorata presunzione di superiorità.
Quando arrivò in Italia, negli anni d’oro che precedettero il boom economico, per l’allora stratosferica somma di 10 milioni di pesetas (160 milioni di lire) versata dalla Juventus nelle casse del River Plate, lo chiamavano el Cabezon, con riferimento alla folta e riccioluta capigliatura che spiccava sul fisico minuto. Faceva impallidire gli avversari col suo sguardo truce e il suo sinistro distruttivo, potentissimo. Con la Juve vinse tre scudetti (1958, 1960, 1961), tre coppe Italia (1959, 1960, 1965) e un pallone d’oro (1961), mettendo a segno 146 reti in 278 partite.
Quando arrivò a Napoli, preceduto da quel soprannome imponente, esso contribuì forse ad alimentare la sua fama di testa calda, suggerendo al popolo partenopeo, per assonanza col dialetto, l’immagine di un “capoccione”, personaggio dalla vena combattiva e polemica. Una verve che non mancò di mostrare anche nel club napoletano, rendendosi protagonista della scalata alla classifica della serie A (3° posto nel 1966, 4° nel ’67 e 2° nel ’68), ma che soprattutto venne fuori grazie alla sua esperienza da cronista.
In Italia trovò la sua vera patria. Nato in un paesello a 200 km da Buenos Aires, nel Bel Paese arrivò insieme a Antonio Angelillo e Humberto Maschio, il trio degli angeli dalla faccia sporca, come vennero soprannominati per l’aria da scugnizzi, che avevano dentro e fuori dal campo. Con i Millionarios argentini aveva vinto i titoli nazionali nel 1955 e nel 1956, e nel 1957 la Coppa America con la maglia dell’Argentina. Ma volle giocare da oriundo nei mondiali Cile 1962, collezionando nove presenze e ben otto gol in maglia azzurra.
Nel 1968, dopo un infortunio al ginocchio e lo storico litigio con l’arbitro Concetto Lo Bello durante Napoli – Juventus del 18 dicembre, Sivori decise di appendere le scarpette al chiodo cimentandosi come allenatore, commentatore sportivo e consulente di mercato per la Juventus. Quando alla fine si stancò anche di questi ruoli, lasciò l’Italia per ritirarsi in patria. Tornò a vivere a San Nicolas, il paese da dove era venuto. Proprio come se niente, nel frattempo, fosse successo. Fu lì che lo trovò la morte, dove l’aveva lasciato la vita. El Cabezon alla fine si arrese, chinando quella testa geniale e ricciuta al tumore al pancreas che lo uccise il 17 febbraio del 2005.
Giuliana Gugliotti
Riproduzione Riservata ®