Quando parliamo di amore facciamo riferimento alla motivazione, al senso dell’esistenza, a ciò che rende l’essere umano nobile. Molti autori di letteratura e di filosofia hanno parlato di questo sentimento, lo hanno analizzato, definito, narrato e esaltato; eroine sofferenti, tradite, a volte persino suicide popolano le pagine dei testi classici. Tutti ricordiamo Penelope, che attese fiduciosa il ritorno del suo amato Ulisse, o Didone, innamorata tanto perdutamente di Enea che vedendolo partire si tolse la vita. Purtroppo questi finali tragici non si verificano solo nella tradizione classica, ma diventano sempre più frequenti anche nella nostra società attuale. Senza andare troppo lontano nel tempo, basti pensare al gesto folle e disperato di Matthias Kaspar Schepp, 44 anni, che, incapace di sopportare la separazione dalla moglie Irina decide di rapire le due figlie, Alessia e Livia, tuttora scomparse, e di farla finita gettandosi sotto le rotaie di un treno a Cerignola. Spesso a scrivere le storie sono proprio i sentimenti e, infatti, l’essere umano prova sentimenti e instaura relazioni; molti autori hanno studiato il modo in cui essi si radicano nell’individuo.
Secondo i teorici dell’attaccamento, J. Bowlby e M. Ainsworth, i rapporti che il bambino instaura con le prime figure di accudimento getterebbero le basi relazionali future, con la costituzione del Modello Operativo Interno (una rappresentazione mentale di sé e della relazione con la madre). Con S. Freud e la psicanalisi si è ipotizzato, e poi teorizzato, che l’individuo investe sull’altro le proprie pulsioni, la propria energia primaria, lo trasforma in un oggetto della propria libido, alternando fasi di scissione, introiezione, fagocitazione ed infine una fase risolutiva di auspicabile integrazione armonica delle figure genitoriali, arrivando così alla fine del processo di maturazione personale ad interiorizzarle, secondo un processo di sviluppo stadiale che sfocia, nell’età adulta, nella fase della maturità genitale e affettiva. Così, in condizioni ottimali, l’individuo una volta cresciuto instaura relazioni amorose e sociali, sviluppa una competenza emotiva e impara a gestire il proprio stare con se stesso; impara a relazionarsi all’altro sapendo gestire la propria vita affettiva e le proprie emozioni in maniera appropriata. Purtroppo non sempre funziona così, molti disturbi dello spettro ansioso-depressivo nascono all’interno della storia famigliare e si rendono evidenti soprattutto nella relazione di coppia. Spesso bisogni di dipendenza non adeguatamente colmati durante l’infanzia, possono estrinsecarsi nel bisogno coatto di protezione e di attaccamento simbiotico nella vita adulta. Tipico esempio di ciò lo ritroviamo nella dipendenza d’amore, in cui l’altro, spesso sfuggente, diventa il nostro salvatore, la droga da cui dipende la nostra felicità, per cui arriviamo ad annullarci. Tale situazione indica una difficoltà a volersi bene, a prendersi cura di sé e la delega all’altro della responsabilità del nostro benessere. Ciò può sfociare anche nella gelosia patologica che rivela una profonda insicurezza, il bisogno continuo di controllare e possedere l’altro, il quale diventa una nostra proprietà.
L’altra faccia di questa medaglia è il “dongiovannismo”, espressione di una personalità fragile, tesa incessantemente alla ricerca di conferme, da cui deriva la necessità di mettere in atto un comportamento seduttivo, finalizzato alla conquista stessa più che al contatto autentico con l’altro. Alla base di questo comportamento vi sono carenze narcisistiche che non permettono il riconoscimento dell’altro: il partner funge da conferma della propria autostima. La vita affettiva è fatta di rapporti superficiali, gratificanti al momento ma che pesano se durano troppo a lungo, quasi un terrore dell’intimità, una vera difficoltà ad instaurare un rapporto profondo, di vero amore con un’altra persona. Ancora, un altro esempio di frequente osservazione è dato dalla personalità isterica, in cui l’insicurezza diventa desiderio di centralità nelle relazioni. Anche qui la superficialità della vita affettiva è legata al desiderio di possedere l’altro, di essere al centro dell’attenzione e al timore, in ogni istante, di perdere il potere di controllo della relazione.
Quando un rapporto affettivo diventa un legame in cui si altera l’equilibrio tra il “dare” e il “ricevere”, l’amore può trasformarsi in un’abitudine a soffrire fino a divenire una vera e propria dipendenza affettiva, un disagio psicologico che è in grado di vivere nascosto nell’ombra anche per l’intera vita di una persona, ponendosi tuttavia come la radice di un costante dolore e alimentando spesso altre gravi problematiche psicologiche, fisiche e relazionali. La dipendenza affettiva indica una condizione relazionale negativa caratterizzata da un assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva e nelle sue manifestazioni all’interno della coppia; in genere si instaura in coppie disfunzionali, contesti relazionali-affettivi in cui uno dei due partner mostra segni di dipendenza verso l’altro. Siamo in presenza di un amore dipendente quando l’amore è: ossessivo, lascia sempre minori spazi personali; parassitario, basato su continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato; stagnante, un chiudersi a riccio alle esperienze esterne in nome dell’amore. Spingono alla dipendenza affettiva: il bisogno di sicurezza e la tendenza a disconoscere e a fare disconoscere all’altro i propri bisogni di ricevere amore, aspetto presente dall’infanzia in cui la persona si abitua a limitare le proprie aspettative in conseguenza a delle esperienze relazionali precoci inappaganti e frustranti.
Questo tipo di dipendenza si riscontra soprattutto nella popolazione femminile e si associa spesso a disturbi post-traumatici da stress. Gli uomini sono più resistenti a un tale tipo di dipendenza in quanto hanno la tendenza a reagire diversamente ai traumi rispetto le donne: gli uomini solitamente allontanano il dolore delle carenze o delle violenze e spesso si identificano con l’attore di queste mancanze o aggressioni, mentre le donne tendono a rivivere ciò che hanno subito, sottomettendosi a nuove carenze o violenze nel tentativo di controllarle e di riscattarsi.
Quel che rende difficile la risoluzione delle dipendenze affettive è che ammettere e individuare la propria problematica risulta difficile per il dipendente, poiché come si è visto con le teorie, la persona affettivamente dipendente conserva nella propria memoria i modelli di amore che fanno ritenere determinati abusi e sacrifici di sé come “normali” in nome dell’amore. Favorire una maggiore consapevolezza rispetto alla propria vita affettiva permetterebbe di diventare più sensibili a quei campanelli d’allarme che possono aiutare ad individuare precocemente segnali di disagio o di sofferenza.
Simona Esposito
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