Una babele di linguaggi pittorici, dal cubo-futurismo russo e francese, all’iperrealismo e all’Art Déco, coniugati all’insegna della sensualità più sfrontata: questa è l’arte (e potremmo dire anche la vita) di Tamara de Lempicka (1898-1980), pittrice di origine polacca tra le più apprezzate e discusse del XX secolo, che oggi, a quasi ventuno anni esatti dalla sua morte, viene celebrata al Museo del Vittoriano con una “personale” tardiva che espone più di 120 tra disegni e quadri della “regina del moderno”, molti di provenienza “privata”, alcuni prestati anche da Jack Nicholson, appassionato collezionista: un’esposizione che si pone l’ambizioso obiettivo di ricostruire, insieme al suo percorso pittorico, anche quello della vita privata dell’artista, attraverso una serie di documenti e filmati che ne scandagliano le relazioni – intime e intellettuali – e tentano di gettare nuova luce su una delle personalità più controverse dell’epoca.
Bisessuale dichiarata, cresciuta nella megalomanica convinzione – trasmessale dalla nonna Clementine – di essere straordinaria, vissuta sempre in viaggio tra Pietroburgo e Parigi, California e Italia, Tamara de Lempicka fu davvero l’icona di un’epoca, quella delle follies parigine (e non solo) degli anni ’20, della sfrenata ricerca della modernità e del gusto per l’esagerazione: non soltanto perché i suoi dipinti, con i loro colori accesi, le forme definite e le forti ombreggiature che rendono le sue figure dipinte quasi scultoree, sintetizzano appieno l’atmosfera di quegli anni, ma anche e soprattutto perché Tamara rese la sua stessa vita, più che la sua arte, emblema di un’epoca, simbolo di uno stile di vita estremo e ricercato, trasformando la sua stessa immagine in un’icona della modernità. Imprenditrice di se stessa, pioniera inconsapevole delle nuove forme di comunicazione, Tamara de Lempicka seppe vendere la propria arte anzitutto attraverso vere e proprie operazioni commerciali (che oggi potremmo definire esempi del più scaltro marketing, come quando indisse un concorso – truccato – per eleggere una modella per un suo nuovo dipinto, che ebbe una potente risonanza sui media) in cui a essere in vendita non erano i suoi quadri, ma proprio lei, “Tamara”, con tutti i significati, gli echi, le risonanze che la sua persona evocava nella pubblica opinione.
Corteggiata – senza successo – da Gabriele D’Annunzio durante un breve soggiorno al Vittoriale, documentato nei racconti di Aélis Mazoyer, governante e amante dello scrittore, ammirata – artisticamente parlando – dal visionario Salvador Dalì, Tamara de Lempicka ha affascinato intere generazioni, e continua a esercitare la sua malia anche ben oltre la sua morte, con la sua immagine circonfusa di mistero, primo fra tutti quello della sua nascita, che ella dichiarava essere avvenuta nel 1902 a Varsavia, a dispetto di documenti ufficiali recentemente rintracciati che la collocano in Russia quattro anni prima; poi quello della sua vita, consumata tra locali notturni e relazioni extraconiugali, apparentemente brillante – ed esaltata dagli effetti della cocaina – sotto i riflettori mondani, ma in realtà inficiata nell’intimo dallo spettro della depressione; e infine quello della sua morte, avvenuta in solitudine. Fanatica ammiratrice di Greta Garbo, probabilmente si ispirò alla sua immagine di diva hollywoodiana per costruire, durante gli anni del suo soggiorno negli States, la sua figura di donna libera e intraprendente, amante del bello e dell’eccesso, fin quasi a sfiorare il kitsch, a tratti attraversata da una rudezza quasi mascolina, eppure permeata di una travolgente sensualità, di quelle che mettono soggezione agli uomini (tanto da costringere il suo primo marito, Tadeusz Lempicki, ad abbandonarla a causa della sua vita libertina, in cui non c’era posto per la famiglia, e da spingere il barone Kuffner, suo secondo marito, a garantirle la più totale libertà, sessuale e non) e che solo una donna sfrontatamente padrona di se stessa può avere. Una sensualità che dirompe nei suoi nudi, famosissimi fra gli altri quelli dedicati alla sua burrosa amante, Rafaèla, esposti per la prima volta insieme al Complesso del Vittoriano, e che invece recede in altri dipinti, sfumando nella trattenuta castità dei ritratti della figlia Kizette, fino a scomparire definitivamente nelle tele a carattere mistico/religioso.
E’ alla luce della sua vita, così come scelse di costruirsela, che Tamara può essere considerata “regina del moderno”, in assoluto prima “stella” di un “pop” inteso come “popular”, corrente culturale che abbraccia varie forme d’arte e si rivolge, appunto, alla massa. E alla massa Tamara de Lempicka seppe parlare facendo parlare di sé, prima ancora che delle sue opere, che, senza la magnetica attrazione che ella esercitava tutt’intorno, tra la gente comune come nei ristrettissimi circoli d’arte, probabilmente non avrebbero avuto, per quanto indiscutibilmente talentuose, lo stesso sfavillante successo. Perché, a ben guardare, la sua pittura, piuttosto che essere un inno all’innovazione si presenta come un mélange senza precedenti di vari elementi pittorici – classicismo italiano ispirato a pittori come Carpaccio, Cubismo e avanguardia Realista – spesso in contrasto tra loro sia visivamente sia concettualmente, che ben poco presenta di nuovo, se non la unica, irripetibile capacità dell’artista di conferire una sublime armonia laddove ci si aspetterebbe di veder regnare il caos (emblematico l’esempio de Les jeunes filles, in cui l’alone soffuso dell’amore saffico tra le due donne stride fortemente nel contrasto coi grattacieli dello sfondo). E ancora una volta, a dominare la scena è sempre lei, Tamara, la sua personalità carica di contrasti e per questo unificatrice, che si legge in trasparenza nella trama di ogni suo dipinto: è l’autrice stessa la vera protagonista dei suoi quadri, i cui soggetti restano, nonostante tutto, a fare da sfondo alla sua preponderante figura, quella dibattuta e ambigua della donna Tamara.
Giuliana Gugliotti
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