Graffiante e vigoroso, Let England Shake è il disco forse più bello e significativo di questo 2011.
Non avevamo notizie della signora Harvey dal 2009, con A woman a man walked by, secondo album in collaborazione con il chitarrista John Parish, che ritroviamo di nuovo alle chitarre in quest’ultimo lavoro.
Let England Shake vede la nostra Polly Jean alle prese con la sua ultima passione, quell’autoharp presente e mai a caso in molti dei pezzi (12) che compongono il disco. Esperienza e delicatezza al servizio di un tema particolarmente forte, l’Afghanistan devastato dalle ultime vicende, ripreso e messo a fuoco in una mostra del fotografo Seamus Murphy, mostra che deve aver particolarmente colpito la Harvey. E gli influssi si sentono tutti in un disco nervoso e tagliente, un concept (o quasi) con pause e riprese continue, un disco veloce (solo 40 minuti) e terribilmente intenso.
La title track, Let England Shake, apre il disco in maniera apparentemente vivace, per poi sfociare nel cuore del discorso con The Last Living Rose e The Words That Maketh Murder, quest’ultimo particolarmente intenso come linee melodiche e suoni. La voce eterea della Harvey apre la splendida On Battleship Hill, mentre torniamo al cantautorato più vicino al recente passato con All And Everyone.
La battaglia prende piede nella seconda parte del disco. In The Dark Places suona la fanfara e con Bitter Branches siamo nel vivo dello scontro, avvolti da un crescendo teatrale che crea attesa e infiamma gli animi di chi ascolta.
Madre Terra sembra piangere i suoi figli caduti in battaglia con le due “gospel/oriented” Hanging In The Wire e Written On The Forehead, due brani dove il falsetto della Harvey si conciliano perfettamente con i numerosi cori gospel, due brani estremamente onirici e sentiti per interpretazione. La guerra volge al termine con The Colour Of The Earth, che rappresenta l’alba di una nuova civiltà nata dalle macerie degli scontri, un finale degno di un capolavoro del genere.
Con Let England Shake PJ Harvey (o Polly Jean) esce vittoriosa nei confronti di quei detrattori che giudicano un artista solo in base al numero delle copie di dischi che riesce a vendere, una vera rosa nel deserto. La collaborazione con John Parish risulta efficace e sentita (tre dischi su tre riusciti benissimo). Le nuove sperimentazioni compositive con l’autoharp convincono, ma restando ancorati al disco in questione, un modo di scrivere musica che forse rivedremo in futuro, chissà.
Marco Della Gatta
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