Ventuno anni sono passati da quel 23 maggio 1992. Ventun’anni dalla strage di Capaci, ventun’anni dalla morte di Giovanni Falcone per mano della mafia, ventun’anni dall’attentato che segnò l’inizio di un’epoca di terrore, che sollevò il velo dell’ipocrisia mostrando al mondo la legge cieca e priva di scrupoli della mafia, ventun’anni da quel giorno che rappresenta, tuttora, uno spartiacque cruciale nella storia della nostra Italia.
Da ventun’anni, ogni anno, l’Italia intera, e soprattutto il Sud, ricorda quel 23 maggio con tristezza e commozione, ma anche con tanta voglia di andare avanti, di cambiare, di rendere il mondo un posto migliore. Lo stesso sacro fuoco che animava Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nella lotta alla mafia. La speranza di restituire ai posteri un mondo più vivibile, finalmente senza omertà, senza bugie, senza paura.
A rilanciare questo messaggio ogni anno sono soprattutto i giovani: quest’anno 3000 studenti sono approdati a Palermo a bordo delle navi della legalità per partecipare alla commemorazione in onore di Giovanni Falcone. Ragazzi delle scuole superiori che, quando Falcone moriva, non erano ancora nati. Loro non l’hanno mai conosciuto, non sanno niente di quel 23 maggio 1992. Eppure l’emozione è palpabile sui loro volti, aleggia nell’atmosfera di una determinazione che oggi, a ventun’anni da quella strage, non è più rabbiosa, ma serena, quasi nostalgica.
Da quel 23 maggio 1992 fiumi di parole sono state spese in ricordo di quelle morti ingiuste, che dipinsero di orrore quello che prima non si vedeva, o si fingeva di non vedere: il potere oscuro della mafia. Ogni anno i giornali hanno da dire qualcosa di nuovo su quel 23 maggio: c’è chi lo trascorre rinvangando vecchie storie e chi raccontandole in modi nuovi, chi lo celebra ricordando i sopravvissuti dimenticati e chi spende commosse parole di commiato per le vittime, come se fossero ancora qui e potessero ascoltare, chi ricorda il messaggio lasciato da chi ha sacrificato la propria vita alla lotta contro la mafia. Ogni anno è tutto un rincorrersi di vecchie foto, vecchi video, vecchi ricordi, in un tran tran di pensierosa indolenza in cui sono i luoghi comuni a farla da padrone.
“La mafia è un fatto umano” disse una volta Falcone. Intendendo dire che non c’era niente di trascendente, niente di invincibile in quell’organizzazione criminale che sembrava inaccessibile, impenetrabile, inarrestabile. La mafia, in quanto umana, è – dovrebbe essere – anche vincibile. “Come ogni fatto umano – diceva Falcone – ha un inizio e avrà anche una fine”.
Ma da allora ad oggi, cosa è stato fatto per sconfiggere davvero la mafia? Falcone sosteneva che la vittoria dello Stato si sarebbe ottenuta “non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. Se questo suggerimento è stato messo in atto, durante questi 21 anni, a noi comuni mortali non è dato sapere. Una cosa è certa: la mafia non è stata sconfitta, è ancora lì, al suo posto, che pasce e prolifera tranquilla e silente.
La mafia è un fatto umano, diceva Falcone. Anche la memoria lo è. Ricordare il passato serve a progettare il futuro. Tuttavia molti sembrano ricordarsene soltanto il 23 maggio, o il 19 luglio. La memoria è un fatto umano, l’umanità ha bisogno di commemorare se stessa, la sua storia, i suoi eroi. A volte però, il ricordo pare quasi celare un’ipocrisia di fondo: come una gigantesca, strategica scusante, una farsa che si mette su una volta l’anno per acquietare le coscienze e potersi lavare le mani gli altri 364 giorni.
Chissà se Giovanni Falcone ne sarebbe stato contento; se non avesse preferito che la sua morte, piuttosto che essere ogni anno celebrata come la disfatta di un eroe, non avesse portato all’eliminazione della mafia. A conti fatti, la morte di Giovanni Falcone resta un fatto umano, che serve a noi umani per non dimenticare ciò che tuttavia pare non si riesca a cambiare.
La memoria è importante solo quando serve da monito, per fare in modo che ciò che di vergognoso è accaduto non si ripeta più. La responsabilità è di tutti noi, ma soprattutto, come diceva Falcone, delle istituzioni che hanno il potere di cambiare le cose. E le cose non si cambiano con vane parole, ma con una silenziosa, caparbia, costante azione.
Che sarebbe doverosa, se non in memoria dei caduti, almeno nei confronti di quei 3mila ragazzi, che si affacciano alla vita con speranza, buona volontà e fiducia nella possibilità di un cambiamento. Rendere onore a Giovanni Falcone e alla sua morte oggi non significa solo ricordare, ma anche fare qualcosa. In caso contrario, la memoria resta un esercizio di facciata, cibo per gli ingenui e i romantici, generatore di falsi miti: un atto sterile e, purtroppo, vano.
G.G
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