Due figure molto differenti: Matteo Renzi e Ciriaco De Mita.
Il primo è giovane, scattante, di bell’aspetto, parla chiaro e si esprime con un nitido italiano d’origine fiorentina; il secondo è sempre stato vecchio, bruttino ed ha il classico atteggiamento e linguaggio da politicante, certamente non aiutato dalla parlata avellinese.
Eppure ambedue appartennero ai “Messia” della politica italiana: per tanto tempo si attese una loro candidatura a capo del governo, auspicando grandi risultati e riforme.
E’ dal 2008 che Matteo Renzi è sindaco di Firenze e fin da allora si è parlato di lui come futuro premier: tuttora se ne parla e sono passati cinque anni.
Appoggiato da una larga fetta d’intellettuali ed imprenditori progressisti, nel 2012 ha tentato la scalata alle primarie del Pd, ma è stato clamorosamente sconfitto.
Il suo argomento chiave è la rottamazione o ricambio nella classe dirigente del Partito Democratico (Renzi vorrebbe abolire le correnti) ma il sindaco di Firenze ha anche già espresso un programma di governo ben definito, non mancando di punzecchiare i governi in carica o gli altri membri del Pd.: inizialmente era osteggiato dall’intero partito, mentre oggi tanti lo vorrebbero al potere.
Ciriaco De Mita addirittura iniziò nel 1969 la “scalata” al potere: il congresso della Democrazia Cristiana di quel’anno volle dare una risposta “giovane” al movimento del ‘68 e lanciò il binomio Forlani-De Mita ( tanto giovani quanto fumosi nei discorsi).
De Mita bollò gli altri democristiani come delle mummie da mandare all’ospizio e promise numerose riforme sociali ed istituzionali, abolendo innanzi tutto le correnti della Dc.: si avvicinò fiducioso al Partito Comunista.
La sua figura fu idolatrata da giornalisti ed imprenditori che sognavano un uomo del cambiamento: Eugenio Scalfari lo esaltò ed Agnelli lo definì “ intellettuale della Magna Grecia”.
Fin qui il paragone con Matteo Renzi è speculare: De Mita però, dopo lungo tempo, ebbe modo di salire al potere e dimostrare le sue credenziali.
Nel 1982 divenne segretario del partito ed effettivamente smantellò le correnti: nonostante una sconfitta elettorale nel 1983, mantenne il potere fino al 1989.
Soltanto nel 1988 divenne presidente del consiglio, dopo un’attesa costellata da avvenimenti che aumentavano le speranze di chi lo sperava in lui: la lunga diatriba ideologica col premier Craxi (ove il segretario della Dc non mancava di enunciare il suo programma), il timore di Craxi verso un suo governo (al punto di far saltare un patto della “staffetta” e di votare un blando governo di Giovanni Goria) e addirittura il timore delle Brigate Rosse (che poco prima della nascita del suo ministero, n’assassinarono un collaboratore, Roberto Ruffilli, e ideatore delle promesse riforme costituzionali).
Tanto timore faceva ben sperare sulle capacità di De Mita.
Il tanto agognato governo durò appena un anno e poco più: troppo poco.
Escludendo le consuete e fumose polemiche politiche e lo scandalo legato al terremoto dell’Irpinia, il ministero attuò unicamente l’abolizione del voto segreto ed una difficoltosissima finanziaria che finì per scontentare tutti.
Durante il periodo governativo aumentò il debito pubblico.
Alle dimissioni da presidente del consiglio, seguirono quelle da segretario di partito: la carriera politica continuò, ma seguendo un basso profilo e scontentando chi lo aveva tanto appoggiato.
Questo è il triste finale di chi tanto aveva agognato il potere, ma probabilmente non aveva avuto la forza di mantenerlo.
Matteo Renzi è chiaramente più giovane e attivo (basti vedere il suo comportamento come sindaco di Firenze) ma dovrà fare i conti con i futuri avversari di coalizione e col sistema politico sempre troppo farraginoso.
Soprattutto dovrà avere voglia e coraggio di fare: atteggiamento che spesso è mancano in casa democristiana.
L’attesa è tanta e questo è già un problema.
Rey Brembilla
Riproduzione Riservata ®