Una vita sventurata e un destino avverso per un’anima grande, illuminata dal talento. Questa è Frida Kahlo (1907-1954), pittrice messicana del primo Novecento, conosciuta da pochi e ignota ai più, ma capace di provocare sempre, in chi si trova a essere spettatore – ignaro o consapevole – delle sue opere, quello scompiglio dei sensi che prelude (e produce) l’atto creativo, d’innescare nell’animo la miccia infuocata della ribellione interiore.
La storia della sua vita, così come si mostra nelle pennellate quasi surrealiste, nei tocchi e nelle sfumature di colori calde e intense delle sue tele, racconta la vitalità solare della sua anima e della sua terra, quel Messico pre-colonizzazione cui la pittrice si sentiva profondamente legata. I suoi dipinti ci parlano della realtà, ma lo fanno con la voce di un inconscio primordiale, collettivo: è un modo originalissimo di guardare al mondo, quello di Frida Kahlo, figlia delle antiche tradizioni di una innata mexicanidad – quella precolombiana, trasmessale dalla madre india –, donna simbolo di un femminismo atavico, quello della mitica femminilità generatrice, intrisa allo stesso tempo di una mascolinità caratteriale che traspare nell’eccentricità del suo abbigliamento, spesso maschile, nella scelta di ritrarsi sovente adorna di baffi, nella forza d’animo dirompente con cui affronta le avversità di una vita che le ha riservato più dolori che gioie.
Idealista e attivista politica comunista, Frida amava definirsi figlia della Rivoluzione Messicana (1910), quella che condusse un intero popolo, decimato e vessato dalla mannaia della colonizzazione, a insorgere sotto la guida di Emiliano Zapata, per riappropriarsi della sua libertà di autodeterminazione. La stessa lotta che Frida condusse contro se stessa, o meglio contro quel corpo malato (fu affetta, secondo versioni discordanti, da spina bifida o da poliomelite) e successivamente ferito in un incidente stradale, che per tutta la sua vita terrena si portò dietro come un fardello di cui è impossibile liberarsi, pena la propria stessa dissoluzione, e verso cui, proprio per quest’essere tanto pesantemente presente, sviluppò un’attenzione quasi ossessiva, rivestita da un’immaginifica fantasia di fusione, scomposizione, estraneazione di quello stesso corpo. Un corpo che è oggetto privilegiato, parte palpitante e viva dei suoi dipinti – prevalentemente autoritratti –, un corpo sezionato, aperto, scrutato fin nelle fondamenta, mescolato con elementi architettonici, per cui una colonna greca diventa una spina dorsale distorta, spezzata (La colonna rotta, 1944), e naturali, nella fusione con un cervo trafitto da frecce dell’omonimo dipinto; un corpo sofferente e martoriato, ma disciolto nella scorrevolezza delle pennellate, come a voler rintracciare in esso, dietro e dentro il corpo, così come viene rappresentato sulla tela, impudico, quasi sconcio nel suo essere assolutamente privo di fronzoli, l’essenza più pura dell’anima.
La propria anima, quella della pittrice stessa, e quella della femminilità vestita di mascoline attitudini; l’anima della messicanità, e quella della natura e della terra, ma anche quella della mancata maternità, che, a causa dell’incidente che Frida subì a diciassette anni (un corrimano dell’autobus su cui viaggiava la trapassò da parte a parte, costringendola a una lunga immobilità forzata e a subire oltre 30 interventi) non le fu mai possibile. Un dolore, quello procurato dalla fallita maternità, cui Frida non riuscirà mai a rassegnarsi, nemmeno dopo il terzo e ultimo aborto, raffigurato crudamente, con chirurgica freddezza, nelle evocative anatomie del suo Ospedale Henry Ford o Il letto volante, 1932.
Maria Nadotti scrive: “Tre sono i modi in cui Frida si dipinge: corpo danneggiato e echeggiato, in bilico tra la vita e la morte, tra la passione e il delirio amoroso; corpo mascherato e adornato, icona intatta e intangibile, simulacro autosufficiente e sigillato in se stesso; corpo confuso con la natura, liana e radice, affondato nella terra e nella pietra, trapassato dal cielo e intrecciato alle foglie da misterici, onnipresenti legamenti arteriosi. Non conosco nessun’altra opera che così irresistibilmente costringa a entrare nella pelle di un’altra persona.” L’immagine distorta del proprio corpo, osservato durante i lunghi periodi di convalescenza dall’immobilità del proprio letto a baldacchino, su cui i suoi genitori fecero montare uno specchio cosicché ella potesse guardarsi e dipingersi, diventa un leit-motif di quella che può essere considerata un’opera omnia, un unico, grande racconto autobiografico, scritto coi colori e le immagini al posto delle parole. Come Frida stessa affermò: “A volte mi chiedo se la mia pittura non sia stata, nel modo in cui l’ho portata avanti, più simile all’opera di uno scrittore che a quella di un pittore. Una specie di diario, oppure la corrispondenza di tutta una vita. Il primo come luogo in cui avrei liberato la mia immaginazione, analizzando vita, morte e miracoli di me stessa, mentre con la seconda, avrei dato notizie su di me o dato parte di me, semplicemente, a persone care. D’altronde, i miei quadri li ho quasi tutti regalati, in genere sono stati destinati a qualcuno fin dall’inizio. Come delle lettere”. A cominciare dal suo primo autoritratto, dipinto a diciannove anni (1929), poco dopo l’incidente, e dedicato a un suo amore adolescenziale, Alejandro; ai vari ritratti dedicati all’uomo della sua vita, il pittore Diego Rivera, incontrato proprio grazie alla pittura, amato dal primo giorno nonostante i continui, più tardi reciproci, tradimenti, sposato due volte senza riuscire a staccarsene mai; passando per l’autoritratto regalato a Lev Trotsky (1934), suo amante illustre, a quello dedicato alla sua balia, La mia tata e io (1937), raffigurata con un totemico volto di pietra, come a voler sottolineare la freddezza percepita in quello che dovrebbe essere un gesto primario di amore materno, l’allattamento, al Ritratto di mio padre (1951), mite ebreo di origini ungheresi, uomo teneramente amato, da cui Frida apprese la tecnica della fotografia e della pittura.
Tacciata di narcisistica autoreferenzialità per quest’ossessione insana nutrita nei confronti del proprio corpo, Frida Kahlo tentava semplicemente di offrire alla sua psiche quella cura che non era stato possibile trovare per il corpo: il suo modo visionario di dipingere è un modo di guardare a se stessa e alla realtà, in cui si scorge sempre la stessa, univoca tensione di ogni arte, il suo scopo supremo: condividere e raccontare agli altri la propria visione del mondo. Perché, nonostante tutto Frida non era diversa dalle altre donne. Se non per la sua inconfutabile dote, quella capacità di “spogliare” gli oggetti dei suoi dipinti e metterne a nudo l’essenza più cruda.
Ammirata da Picasso, che rivolgendosi a Rivera disse di lei: “né tu né io siamo capaci di qualcosa come questo”, corteggiata artisticamente da André Breton che tentò di iscriverla nel novero dei surrealisti, ricevendone un secco rifiuto, Frida Kahlo restò sempre un’artista solitaria, distante dalle correnti predominanti, unica nella sua netta opposizione a qualunque tipo di stigmatizzazione della sua arte, attraverso la quale, a differenza dei surrealisti, Frida non cercava di dare libero sfogo al subconscio, ma piuttosto di rendere, tramite i simboli, accessibile alla comprensione altrui il tumulto fin troppo cosciente che agitava i suoi mondi interni.
Un tumulto – fisico e psichico – che fin troppo presto la vinse, uccidendola a soli 47 anni; nel corpo, ma non nello spirito, che continua ad aleggiare sulle lande del Messico, e a infiammare l’immaginazione e la vista di chi tuttora ama la sua pittura. Poco prima di morire, nel suo diario aveva scritto: “Attendo con gioia la mia dipartita. E spero di non tornare mai più”. La vita era stata ingiusta con Frida, ma Frida non aveva mai smesso di amarla e viverla con gioia, anche nel momento della morte: come suggerisce il suo ultimo quadro, il suo più congeniale e lieto addio a questo mondo, una natura “viva” che ritrae dei cocomeri, il suo ultimo grido di Viva la vida.
Giuliana Gugliotti
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