Qualche settimana fa, l’8 giugno, un duro colpo è stato inflitto al clan degli “scissionisti”, dell’area Nord di Napoli, con l’arresto del boss Carmine Amato, reggente del clan Amato-Pagano, e del suo guardaspalle, Daniele D’Agnese. Rintracciati in una villetta inaccessibile sulla collina dei Camaldoli – per scovarli la polizia ha dovuto scalare la cava di tufo su cui sorge la costruzione, passando per un sentiero di scolo dell’acqua piovana – i due sono stati trovati in compagnia di mogli e figli, incollati ai monitor della videosorveglianza e ben armati; spaventati, forse, dall’arrivo dei giustizieri del clan nemico più che da quello della polizia. All’esterno della Questura di Napoli, poco prima di essere trasferiti in carcere, Amato e D’Agnese sono stati salutati da quattro giovani, probabilmente nuovi affiliati venuti a rimpolpare le fila del clan: uno di loro si è avvicinato fino a riuscire a baciare D’Agnese, prima di essere allontanato da una poliziotta. Un bacio sulla bocca, sotto gli occhi di tutti, giornalisti, forze dell’ordine, amici, passanti.
Stessa scena pochi giorni dopo fuori casa del boss Salvatore D’Amico, reggente dell’omonimo clan di San Giovanni a Teduccio: l’uomo dopo essere stato arrestato e condotto all’esterno dell’abitazione tra la folla di amici e parenti accorsi per l’ultimo saluto – oltre che per rivolgere rabbia e insulti contro i carabinieri – ha avvicinato il figlio quattordicenne, con aria spavalda, e lo ha baciato sulle labbra.
Baci rubati, scambiati sotto l’occhio indiscreto dei riflettori, durati pochi secondi, lo stesso tempo che hanno impiegato le foto scattate dai giornalisti presenti a fare il giro del mondo tramite il web. Baci rubati in pubblico affinché, a chi di dovere, giunga un messaggio ben preciso.
La camorra, si sa, è una sorta di anti-stato, un alter ego della società civile, con diritti e doveri, leggi e gerarchie, norme, valori e rituali che si contrappongono all’ordine sociale vigente. L’appartenenza alla famiglia diviene fondamentale – una volta che si accetta di farne parte non c’è alcun modo di venirne fuori senza pagare un prezzo elevato – e a mantenere l’unità al suo interno non concorre soltanto l’affetto, ma l’instaurarsi di legami ancora più profondi, quasi viscerali, perché fondati sulla sottomissione, sul rispetto del potere dell’altro, sulla paura.
Il bacio è da sempre uno dei rituali più in voga tra i camorristi: già Cutolo salutava così i propri sottoposti nelle aule dei tribunali in occasione dei processi e, di recente, l’abitudine sembra essere tornata di moda, probabilmente proprio grazie al risalto mediatico che è stato conferito alla prima di queste manifestazioni intime nei pressi della Questura. Da molto tempo l’opinione pubblica e le istituzioni indagano sul significato del “bacio di camorra”: affetto per chi è stato catturato e sarà lontano per molto tempo, promessa di rispetto e mantenimento dei patti e delle regole nonostante gli arresti avvenuti, dichiarazione di appartenenza fedele al clan, monito a tacere affinché non siano rivelati i segreti della famiglia, ecco cosa si cela dietro un bacio tra chi viene condotto in carcere e chi resta sul territorio e si impegna a continuare il lavoro intrapreso o ad assumere posizioni di comando. Si tratta di esprimere con intensità e clamore, come vuole la migliore tradizione della sceneggiata napoletana, un legame inscindibile, un legame di sangue fondato sul sangue versato da altri in nome della famiglia, in nome del sistema cui ferocemente si appartiene, l’altra faccia della Campania, quella che prospera nel degrado e nella disperazione e prende il sopravvento laddove si pone come unica speranza di sopravvivenza, fonte di ricchezza e potere.
È evidente che il significato sotteso al bacio va considerato in virtù di una compresenza di fattori: nel caso di D’Amico, ad esempio, il bacio è stato dato dal padre al figlio, dunque potrebbe trattarsi non soltanto di una manifestazione d’affetto volta a sostenere e confermare il patto e le regole interne per il mantenimento del clan, ma anche un più esplicito passaggio di consegne; il capo, coinvolgendo il pubblico presente ed informato degli affari e delle gerarchie della famiglia – oltre che le telecamere, ovviamente – indica il suo nuovo successore (ancora minorenne, ma con un’idea già molto chiara di ciò che sarà del suo futuro). D’altra parte, è diverso il caso dell’arresto di Amato e D’Agnese: qui, infatti, è il secondo ad essere raggiunto dal bacio, pur non essendo il capo del clan. Il gesto assume, più probabilmente, il tono dell’ostentazione del senso di appartenenza o un avvertimento, per chi sarà sottoposto alle indagini, di tacere perché tanto, fuori dalle mura del carcere, ci sarà qualcun altro a prendere il suo posto, ad occuparsi degli affari e della famiglia.
Del resto, nel corso di un’intervista rilasciata per il quotidiano “La Repubblica”, un poliziotto – che per ovvie ragioni ha scelto di mantenere l’anonimato – ha dichiarato che tra i clan afferenti all’area Nord di Napoli, quelli dei cosiddetti “scissionisti” di cui fanno parte proprio i due ormai ex latitanti del clan Amato, il bacio sulle labbra è il simbolo di un giuramento, ma anche un vero e proprio segno di riconoscimento: i membri del clan si baciano in questo modo in segno di saluto, sempre, soprattutto in pubblico, per chiarire o esplicitare a chi osserva, l’esistenza del legame reciproco, la comune appartenenza sociale, la condivisione delle radici “familiari” della cosca.
Sara Di Somma
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