La scorsa settimana Rai1 ha trasmesso la miniserie “L’Oriana”, prodotta da Fandango e diretta da Marco Turco, che ha visto Vittoria Puccini indossare i panni di una delle donne più complesse, contraddittorie e discusse del Novecento: Oriana Fallaci.
Non ho alcuna intenzione di commentare la fiction televisiva dedicata alla giornalista, ci hanno già pensato illustri critici su quasi tutte le testate nazionali e sicuramente molto meglio di quanto avrei saputo fare io. Quest’attenzione sulla Fallaci mi ha dato, però, lo stimolo per andare a ripescare i libri letti molto tempo fa. In particolar modo ho guardato con occhi diversi alcune righe contenute nel libro “Se il sole muore”, pubblicato da Rizzoli nel 1965 (io ho la versione edita da BUR del 2000). Si tratta di una sorta di “appello ai trentenni”:
sono stupendi i trent’anni![…] Sono stupendi perché sono liberi, ribelli, fuorilegge, perché è finita l’angoscia dell’attesa, non è incominciata la malinconia del declino, perché siamo lucidi, finalmente, a trent’anni!
Se siamo religiosi, siamo religiosi convinti. Se siamo atei, siamo atei convinti. Se siamo dubbiosi, siamo dubbiosi senza vergogna. E non temiamo le beffe dei ragazzi perché anche noi siamo giovani, non temiamo i rimproveri degli adulti perché anche noi siamo adulti. Non temiamo il peccato perché abbiamo capito che il peccato è un punto di vista, non temiamo la disubbidienza perché abbiamo scoperto che la disubbidienza è nobile. Non temiamo la punizione perché abbiamo concluso che non c’è nulla di male ad amarci se ci incontriamo, ad abbandonarci se ci perdiamo: i conti non dobbiamo più farli con la maestra di scuola e non dobbiamo ancora farli col prete dell’olio santo. Li facciamo con noi stessi e basta, col nostro dolore da grandi.
Siamo un campo di grano maturo, a trent’anni, non più acerbi e non ancora secchi: la linfa scorre in noi con la pressione giusta, gonfia di vita.
Ho naturalmente tralasciato di riassumere il contesto in cui queste parole sono inserite perché – per la riflessione che mi accingo a fare – mi occorrono così, decontestualizzate.
Sono stupendi i trent’anni, scrive Oriana. Nell’imminenza dei miei trent’anni, invece, “stupendo” non è certo l’aggettivo che sceglierei. Capiamoci: non ho alcuna intenzione di affermare l’opposto. Certo è tempo di bilanci, nella consapevolezza di una maturità conquistata a fatica. I trent’anni sono fatti di ansie e gioie, di perdite, di accettazione e rifiuto.
Cosa significa, oggi, avere trent’anni in Italia?
Pochissimi possono dire “finita l’angoscia dell’attesa”. Navighiamo nell’incertezza, lottiamo ogni giorno contro lo sconforto e ci aggrappiamo alla speranza del “prima o poi…”. Ci siamo dati da fare, abbiamo assecondato le nostre naturali inclinazioni; abbiamo sofferto, rinunciato e, soprattutto, abbiamo costruito, ci siamo costruiti. La maggior parte di noi ha ormai concluso la propria educazione sentimentale e ne porta sul corpo e nell’anima tutte le cicatrici; molti hanno guardato negli occhi i propri limiti e hanno smesso di combatterli, imparando a conviverci limitandone i danni; altri ancora hanno capito che è finito il tempo di mettersi al centro. Il centro è ora composto da tutte le persone che amiamo e dei progetti verso cui tendiamo.
Noi trentenni italiani, cara Oriana, siamo ancora in attesa di qualcosa. Certo non un’attesa adolescenziale e malinconica, piuttosto un’attesa consapevole. Hai ragione tu, però: sappiamo cosa siamo, sappiamo cosa abbiamo fatto per arrivare ad essere quelli che siamo, ma cerchiamo ancora una collocazione.
Molti sono andati via, ma come noi e con maggiori difficoltà (non solo perché lontani dai posti in cui sono cresciuti, ma anche perché distanti dagli affetti più cari) sgomitano per un lavoro dignitoso e un’affermazione personale e professionale che – a trent’anni – è davvero necessaria.
Seguendo un po’ il meccanismo delle libere associazioni, ho voluto cercare un sottofondo musicale per le mie parole e la prima canzone che mi è venuta in mente è contenuta nel secondo album de I Cani, progetto musicale del cantautore romano Niccolò Contessa.
Glamour è – a mio modesto parere – un album sui e per i trentenni. C’è, infatti, la necessità di avere qualcuno con cui condividere la paura in “Come Vera Nabokov”; c’è il ricordo e la nostalgia dei problemi giovanili in “Corso Trieste”; c’è lo stordimento e la disillusione in “Storia di un impiegato” e c’è la consapevolezza in “Lexotan”.
In quest’ultima canzone, che prende il titolo da un famoso ansiolitico, Contessa trova una soluzione al clima di incertezza, disagio e sofferenza che dilaga tra i “quasi adulti”. Una soluzione che non è fatta di psicofarmaci, di assurde aspettative, di narcisismo e che, molto banalmente, recita:
“se dovessi avere sulla tangenziale la tachicardia, cercherò di ricordare che – nonostante tutto – c’è la nostra stupida, improbabile felicità.”
Una felicità fatta di poche, semplici cose. Una felicità che deriva dall’avere la valigia e gli occhi pieni. E pazienza se ancora non scorgiamo la meta, abbiamo ormai tutto l’occorrente per affrontare il viaggio…qui e altrove.
Emiliana Cristiano
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