Quell’espressione fiera e un po’ spavalda, l’ampia fronte sempre corrugata nel taglio beffardo delle sopracciglia asimmetriche, lo sguardo incantato e apparentemente perso nel vuoto, le labbra sottili e dischiuse come nella meraviglia, o nell’attesa di qualcosa di straordinario. È così che rivedo Eleonora Duse: come la ritraevano le fotografie dell’epoca, ovvero giovane, bella, all’apice del successo teatrale e, più tardi, cinematografico. Un volto espressivo e pulito, provocante e virginale insieme, che ella non volle mai “contaminare” coi trucchi di scena, per timore che ne intaccassero la sorprendente capacità comunicativa. E faceva bene, Eleonora, perché davvero il suo volto parlava da sé, raccontando storie di attriti e passioni, con gli occhi traboccanti audacia e paura, tormento e speranza, gli occhi di una donna che non si arrende nemmeno davanti alla disfatta di se stessa, e che continuamente lotta per la propria affermazione.
La Divina, come la soprannominarono in virtù dell’indiscusso talento, fu una vera e propria stella, la prima donna del Teatro italiano a cavallo tra Ottocento e Novecento, una brillante cometa che spandé sui palcoscenici internazionali la luce dell’italianità, e soprattutto della femminilità italiana, lasciandosi dietro una scia soffusa di critiche e di velata ammirazione.
Eleonora Duse (1858-1924) nasce a teatro e per il teatro: figlia di attori dilettanti e girovaghi, trascorre la sua infanzia in giro per i palcoscenici, ammaliata dall’arte della drammaturgia che le entra in corpo proprio nei teneri, malleabili anni dell’infanzia. A soli quattro anni debutta nella sua prima apparizione teatrale, impersonando Cosetta ne I Miserabili. A poco più di vent’anni è già prima attrice nella compagnia Semistabile di Torino, e grazie a parti indimenticabili come Terese Raquin e Giulietta, a trenta conquista il ruolo di Capocomico. Bella a modo suo, volitiva, caparbia e anticonformista, inizia ben presto a disdegnare l’obsoleto classicismo perbenista di un teatro, quello italiano, che conta un numero vergognosamente esiguo di drammaturghi – se si escludono Verga e, successivamente, D’Annunzio – e che inizia a starle stretto come una vecchia, casta veste. Si appassiona invece alle pièce straniere: da Dumas figlio, a Victorien Sardou a Henrik Ibsen, che ella amò particolarmente per la capacità di imprimere alle sue opere quel carattere di destrutturazione e sottile dileggio dell’ipocrita società borghese dell’epoca, la stessa capacità che Eleonora possedeva a sua volta, e che metteva a frutto direttamente in fase di realizzazione, attraverso una pratica di costante revisione dei copioni e un’improvvisazione scenica di volta in volta diversa, che rendeva la sua recitazione tanto imprevedibile e stupefacente.
Superba interprete perfino del teatro di Shakespeare, Eleonora Duse visse la propria vita, così come il “suo” teatro, proprio all’insegna dell’improvvisazione: famosa sin da giovanissima, a soli 24 anni (1881) sposò Tebaldo Cecchi, da cui ebbe la sua unica figlia, Enrichetta, per poi separarsene legandosi, solo 4 anni dopo, a Arrigo Boito, che riadattò per lei l’Antonio e Cleopatra, e con cui diede avvio a un prolifico periodo di collaborazioni artistiche. Chiacchieratissima per le sue amicizie femminili, di cui non fu mai accertata la natura omosessuale, la Duse si legò a svariati personaggi di rilievo storico come Matilde Serao, sua testimone di nozze, Grazia Deledda, per la quale interpretò, nella sua unica apparizione cinematografica, il film muto Cenere, tratto dall’omonimo racconto della scrittrice, l’attrice Sarah Bernhardt, con cui contese l’ammirazione e forse l’amore del Vate D’Annunzio, nonché la ballerina Isadora Duncan, con cui condivise l’esperienza, fatta di incontri segreti, di una tournée europea.
Ne emerge l’immagine di una donna emancipata, fin troppo per l’epoca, padrona del proprio destino e unica destinataria delle sue azioni; eppure allo stesso tempo, tra le pieghe intense di quel volto tanto espressivo si legge la solitudine, l’amarezza, tutta la difficoltà di essere e sentirsi veramente donna in un ambiente sociale che a quell’epoca è ancora fortemente castrante nei confronti della femminilità. Un conflitto interiore che, probabilmente, la Duse esorcizza sulla scena, proiettando pezzi di se stessa e della propria personalità sulle sue “moderne” eroine, tragicomiche o disperate, incomprese e nevrotiche, ma sempre, nella sua recitazione, rivestite della sua personalissima impronta interpretativa. Come se il teatro fosse l’unico luogo, sospeso tra il bene e il male, una zona franca in cui a una donna è concesso di mettere in mostra se stessa, fingendosi qualcun’altra. La confusione diventa ben presto palpabile anche per Eleonora stessa, che infatti confesserà: “Quelle povere donne delle mie commedie mi sono talmente entrate nel cuore e nella testa che mentre io m’ingegno di farle capire alla meglio a quelli che m’ascoltano, quasi volessi confortarle, sono esse che adagio adagio hanno finito per confortare me”.
Un amore, quello della Duse per il teatro, paragonabile solo all’altro suo amore, quello carnale, terreno, quello per il Vate Gabriele D’Annunzio, incontrato per la prima volta nel 1882 a Roma, quando lui, nemmeno ventenne, le propone esplicitamente una notte di sesso, ritrovato attraverso le sue Elegie Romane, che lo scrittore dedica “alla divina Eleonora Duse”, e infine amato dal 1984 – data del loro ennesimo, ma stavolta fatale incontro in una galeotta Venezia, romantica e mortifera come sarà la loro relazione tumultuosa, scadenzata dai continui tradimenti di lui e nutrita dall’incommensurabile adorazione di lei – fino al 1900, anno della pubblicazione de Il fuoco, romanzo in cui D’Annunzio racconterà al mondo la loro affascinante storia d’amore.
Quelli della relazione con D’Annunzio furono per Eleonora anni disperati e prolifici, durante i quali all’amore si coniuga la collaborazione artistica con il poeta e scrittore, per cui la Duse si impegna a finanziare e a mettere in scena, recitandovi da protagonista, le opere teatrali del suo amante; fino a quando D’Annunzio non le preferisce Sarah Bernhardt per la prima rappresentazione de La ville morte, ferendo, mortalmente appunto, i sentimenti della sua amante. Che tuttavia lo perdonerà, pronunciando quella che tuttora resta una frase celebre: “Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato”. Perché, potremmo dire, Eleonora Duse mise l’amore sopra ogni cosa, vivendo la sua vita nell’ardente fuoco della passione: quella per D’Annunzio e quella per il Teatro, che insieme, a poco a poco, la consumarono, lasciandola, esanime, sulla scena, sconfitta da un problema polmonare che aveva radici nell’infanzia, a soli 66 anni.
La sua salma riposa oggi a Asolo, per sua espressa volontà; ma il suo indimenticabile talento vive ancora negli occhi di tutti gli spettatori che hanno potuto ammirarla mentre calcava le scene, e il suo amore per D’Annunzio è scolpito per l’eternità, nella toponomastica della città di Firenze, dove i due vissero un periodo felice del loro amore, dove viale Eleonora Duse incrocia inevitabilmente viale Gabriele D’Annunzio.
Giuliana Gugliotti
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