“Nell’Aprile 2007 tornai in Cina e tentai un’altra volta di affrontare mia madre. Volevo liberarmi delle memorie riposte nei recessi più profondi e oscuri della mia anima. Volevo raccontarle quello che era successo a me, sua figlia, durante la Rivoluzione culturale, quando lei non era con me. Volevo che capisse le pene e i tormenti che avevo vissuto e che continuavano a ossessionarmi. Volevo che sapesse anche quanto mi era mancato e quanto continuassi a desiderare il suo affetto. Ma come in tantissime occasioni precedenti, non riuscii a pronunciare una sola parola. Sedevo muta davanti a lei, in un fiume di lacrime. Quella volta però ci fu qualcosa di diverso: lì, in silenzio, cominciai a rendermi conto di quanto le figlie adottive desiderassero capire le proprie madri naturali e dire loro quanto le amassero. Compresi che, nel mio piccolo, io ero una di loro. Quel giorno decisi che, pur essendo doloroso per me, avrei scritto le storie che avevo raccolto per così tanto tempo. Avrei potuto così condividere i miei pensieri e sentimenti sulle madri e sulla vita con delle figlie adottive e, in questo modo, ringraziare le madri adottive per l’amore che provavano per le loro figlie cinesi”.
Così Xinran ci racconta la genesi de Le figlie perdute della Cina. Un libro che è un vero e proprio parto, emotivo più che intellettuale, che dopo anni di gestazione (nove dall’ultima pubblicazione, La metà dimenticata, saggio best-seller sulla condizione delle donne in Cina) finalmente è arrivato, spontaneo, generando un’opera a metà tra documentario e racconto che è prima di tutto un’accorata risposta alla domanda che migliaia di bambine cinesi, adottate in tutto il mondo, si fanno quotidianamente, e quotidianamente rivolgono ai loro genitori adottivi: Perché la mia mamma cinese non mi ha voluta?
Ogni anno migliaia e migliaia di neonati cinesi abbandonati vengono adottati in paesi stranieri – 120mila solo nel 2007. Quasi tutte sono bambine. Le ragioni sono imperscrutabili, indecenti, indicibili. Xinran le ha incontrate quasi per caso, queste ragioni, nei racconti delle donne che ha conosciuto nei lunghi anni vissuti da reporter, quasi come se, contrariamente a ogni lavoro di indagine in cui è l’investigante a scovare le storie, siano state queste storie – queste donne – a trovare lei, per raccontarsi e essere raccontate.
Waiter, la studentessa ingenua, la “donna che attende” ancora un futuro con la figlia capitatale per caso, e che non incontrerà più; Kumei, la lavapiatti che tenterà di suicidarsi due volte, sopraffatta dai sensi di colpa davanti alla felicità di due bambine che avrebbero avuto la stessa età delle sue due figlie, morte per mano sua; Maria la Verde, che consapevolmente consegnerà sua figlia nelle mani degli “stranieri”, nella speranza di offrirle un futuro migliore.
Storie di donne dilaniate dal rimorso, tormentate dal ricordo di un amore soppresso dalle imposizioni di un regime socio-culturale che ancora non riconosce alle donne pieno rispetto dei loro diritti fondamentali. Perché nascere donna in Cina, oggi come millenni fa, è ancora una disgrazia. Un sistema di distribuzione della terra che, nelle zone rurali, attribuisce nuovi appezzamenti solo alla nascita di un figlio maschio che continui la discendenza, l’ignoranza in ambito sessuale e la politica del figlio unico, introdotta negli anni ’80 per arrestare il boom demografico: sono queste le ragioni che spingono migliaia di madri ad abbandonare, peggio ancora uccidere, le loro bambine. La consapevolezza di non poterle allevare, una condizione di perenne indigenza, e la certezza di mettere al mondo un’infelice, condannata per tutta la vita a sentirsi schiava di un ruolo che loro stesse, come donne e madri, non avrebbero mai desiderato: tutto ciò spinge a una scelta che per alcune donne si configura come estremo, solennemente oblativo, gesto d’amore.
Questi e altri fantasmi tornano a rivivere, e forse per la prima volta si mostrano al mondo occidentale, nei racconti di Xinran, con parole schiette e toccanti che esprimono tutta la cruda disperazione di un gesto talmente abituale da sembrare facile da compiere a uno sguardo cinico, ma che invece rimane per queste donne un irrisolto psicologico, che continuerà a torturarle per sempre. Un irrisolto che la stessa scrittrice si porta dietro, come figlia “abbandonata” dai genitori che la sacrificarono agli ideali rivoluzionari, e come madre “adottiva”, costretta a lasciare la “sua” bambina in orfanatrofio, per perderla poi definitivamente.
Un dolore e un amore, quello delle madri cinesi per le loro bambine, abbandonate o uccise, che Xinran sa come raccontare proprio perché l’ha a sua volta vissuto: Le figlie perdute della Cina è insieme un atto di denuncia e una confessione dei propri peccati, sospinto da una molla che poco ha a che fare con la curiosità giornalistica, e molto coi misteriosi processi inconsci che regolano e organizzano la nostra esistenza. Perché quello che emerge in maniera palpabile, in ogni singola riga di questo libro, è un bisogno inconscio di conoscenza e rispecchiamento da parte della scrittrice, una necessità interiore di dare voce alle storie di amori perduti, di ricucire quei legami spezzati tra le madri cinesi e le loro figlie perdute – cosa di cui si occupa anche l’associazione Mother’s Bridge of Love, fondata dalla giornalista – che ogni giorno, tuttora, subiscono l’atroce destino della morte, la “sistemazione”, come chiamano l’omicidio delle neonate nelle zone rurali della Cina più arcaica, o, nei casi più fortunati, dell’abbandono e dell’adozione in Occidente. Da dove queste figlie perdute continuano a guardare alla Cina con occhi sognanti. Un sogno che Xinran ha tentato di trasformare in realtà, consegnando loro un messaggio da parte di tutte le madri cinesi, vittime consapevoli di una scelta sicuramente dolorosa, forse incomprensibile, ma che è prima di tutto fatta per amore.
Giuliana Gugliotti
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