“Allora io trovo pace, convincendomi che Luigi non poteva invecchiare a mediocre livello. Lui somiglia agli eroi, ai quali il destino toglie l’umiliazione della vita terrena e il disagio del progressivo declino fisico”.
Con queste parole, a distanza di oltre vent’anni dalla sua morte, l’ormai cinquantenne Dalida ricordava Luigi Tenco. Probabilmente mai parole furono più appropriate per ricordarne la grande, prematuramente scomparsa, cometa. Una cometa, non una stella. Perché l’apparizione di Luigi Tenco sui palcoscenici musicali italiani non è durata più di un lustro, è stata repentina e improvvisa, se paragonata alla carriera trentennale di altri artisti che, da allora, ancora oggi solcano i palchi più in vista della canzone italiana, ma, proprio come una cometa, s’è lasciata dietro una scia luminosa e chiara, che continua tutt’oggi a illuminare il cammino di quei pochi che portarono – e portano ancora – avanti la sua concezione della musica, e quegli altri, ancora di meno, che restano oggi affascinati dalle parole e dai pensieri dell’uomo Tenco, uomo di ieri, ma avanguardistico al punto da essere tuttora, per alcuni, un incompreso.
Come spesso accade a coloro che hanno sofferto, la musica per Luigi Tenco non era altro che un espediente per esternare i suoi vissuti interiori, altrimenti inesprimibili. Tenco amava definirsi un “compositore”. Di musica, certo. Ma anche di poesie, quelle che poi andavano a costituire i testi, gli impalcati viventi, le anime pulsanti delle sue canzoni. Poesie che Tenco già scriveva da ragazzo, negli anni genovesi trascorsi con la madre Teresa e il fratello – fratellastro – Valentino, gli anni del liceo (classico prima, scientifico poi) e della militanza comunista, dell’Università (Ingegneria, poi abbandonata per idealismo: “non costruirò mai ponti e case solo per far accumulare quattrini ai potenti. Meglio che nelle case arrivino le mie canzoni”, e sostituita con Scienze Politiche) e della passione per il clarinetto, strumento dell’esordio sulla scena musicale dell’epoca.
Figlio illegittimo, nato da una relazione extraconiugale della madre con un giovane rampollo di una ricca famiglia di Torino, cresciuto senza un padre, né quello naturale, da cui sua madre fu allontanata per evitare lo scandalo, né quello legale, che morì prima della sua nascita, da cui Luigi ricevette in eredità solo il cognome, il giovane Tenco crebbe con uno spirito battagliero e di denuncia. A soli ventitré anni – dopo una già invidiabile gavetta, iniziata sotto pseudonimi (Gigi Mai, Dick Ventuno, Gordon Cliff) per evitare di suscitare scalpore intorno alla sua figura – uscì il suo primo 45 giri da solista, seguito immediatamente da un 33 giri che conteneva pezzi di estrema maturità, e allo stesso tempo di profonda rottura rispetto a una tradizione italiana che si reggeva sulle “canzonette”, quali Mi sono innamorato di te e Cara Maestra. Brani in cui lo spirito anticonformista del giovane cantautore esplode, più che venire fuori, senza mezzi termini né edulcoranti, tanto da procurargli la censura e l’allontanamento dalla RAI per due anni.
Erano tempi bui, quelli in cui il costume e il “salvare la faccia” contavano più della verità e dell’amore, dell’onore e del rispetto di sé, della giustizia sociale e della tolleranza. Luigi Tenco non accettò mai, probabilmente, di essere figlio dei suoi tempi. E forse non lo era, come si dice di ogni eroe che si rispetti. O anche di un pazzo. Fatto sta che ancora oggi, per molti versi, la voce amara di Tenco rimane inascoltata, sepolta troppo presto insieme a lui sotto tre metri di terra arida e fredda.
A venire fuori sono soltanto le chiacchiere, i pettegolezzi. Gli inciuci della gente, gli stessi a cui Tenco aveva cercato di sfuggire, gli stessi che detestava in vita, gli stessi che poi quella vita gliel’hanno tolta. Ancora oggi della sua morte si parla a mezza voce, ancora si cerca – morbosamente – di capire se si trattò del gesto di un uomo depresso, o provocatore al punto da pagare con la sua stessa vita per consegnare alla storia italiana una pagina buia, di amaro monito al suo popolo; o di un omicidio architettato a dovere (addirittura dalla P2, che fa capolino un po’ ovunque quando si parla di misteri all’italiana) per tappare la bocca a un sobillatore di masse. Ancora c’è chi nutre dei dubbi sulla sua relazione con Dalida, sull’autenticità di quell’amore che destò scompiglio e stupore nell’opinione pubblica e che infine condusse entrambi gli amanti alla morte, tirando fuori vecchie lettere che Luigi avrebbe scritto alla sua vera fidanzata, una certa Valeria, l’unica donna di cui era innamorato, o rispolverando vecchie testimonianze di amici e parenti – tra cui la madre stessa di Tenco – che non credevano all’amore tra Luigi e Dalida, e lo giudicavano una mera, scaltra trovata pubblicitaria per alzare gli ascolti a Sanremo. Se davvero così fosse stato, mai pubblicità sarebbe stata meno riuscita. Quello che accadde al Festival del 1967 è storia. “Ciao amore, ciao”, scritta da Luigi Tenco e cantata in coppia con Dalida, secondo le usanze dell’epoca, arrivò dodicesima al voto del pubblico, e non fu ripescata dalla giuria esperta. Luigi Tenco morì quella sera stessa, in circostanze che continuano a restare misteriose, lasciando un biglietto che era un “atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione”. Suicidio, decretarono gli inquirenti. Tenco non aveva retto la prova del palcoscenico, quella del confronto col grande pubblico.
O forse il suo fu davvero l’estremo gesto di un’anima inascoltata, che a lungo aveva gridato a vuoto senza essere capita. La verità non la sapremo mai. Vent’anni dopo, anche Dalida moriva suicida. Ripensando forse al suo amore giovanile, a Luigi Tenco, uomo incompreso, anima eletta che prima di lei aveva trovato il coraggio di liberarsi dalle meschine catene di una vita – di una società – che gli andava troppo stretta.
Giuliana Gugliotti
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