Probabilmente se pensaste ai pirati, le prime immagini che affollerebbero la vostra mente riguarderebbero Peter Pan, il terribile Capitano Uncino e il suo fidato mozzo Spugna o, in versione decisamente più moderna ma altrettanto celebre, Johnny Depp e Orlando Bloom nei panni dei “Pirati dei Caraibi”.
Nel nostro immaginario i pirati assumono i contorni sfocati di una leggenda e richiamano alla memoria atmosfere mitiche e favolistiche, lontanissime dalla realtà. Tuttavia, ad un esame più attento del complesso mondo che ci circonda scopriamo l’esistenza di una pirateria ancora molto diffusa che, negli ultimi mesi, rende difficile la vita di alcune famiglie italiane.
Nel Corno d’Africa gli abbordaggi dei pirati sono ancora un fenomeno attuale: le sciabole e i pugnali sono stati sostituiti dalle più recenti armi da fuoco e scopo dell’assalto non è la conquista del vascello e dei suoi tesori, bensì un riscatto milionario da richiedere alle società proprietarie delle navi o, in caso queste non siano disposte a cedere, ai governi in cui esse risiedono.
Le gang piratesche, che tengono in ostaggio per mesi gli equipaggi e le navi commerciali, si costituiscono e funzionano come vere e proprie organizzazioni camorristiche, non soltanto per le gerarchie di potere interne, ma anche per le condizioni che rendono possibile lo sviluppo di tali gruppi e delle attività illegali ad essi collegate. Laddove il territorio non offre speranze occupazionali, infatti, l’unica alternativa per la sopravvivenza, per i giovani somali, sembra essere quella di entrare nelle fila dei “Salvatori del mare”. Così si sono definiti i pirati della nostra era: la difesa del territorio somalo dalla depredazione e dallo sfruttamento delle risorse, operate da nazioni straniere, è la motivazione originaria con la quale i gruppi organizzati tentano di giustificare i loro sequestri criminosi, mantenendo attivo il fenomeno della pirateria anche ai nostri giorni.
Sembra persino che i pirati somali non amino essere considerati dei delinquenti: i loro abbordaggi mirano alla protezione delle risorse locali, ma soprattutto – grazie alle richieste di riscatti esorbitanti – al sostegno delle famiglie e tribù di appartenenza. Il fenomeno si è, del resto, sviluppato negli anni ’90, quando la Somalia è stata sconvolta dalla guerra civile e le condizioni socioeconomiche disastrose hanno favorito l’implementarsi di attività di lucro illegali.
La pirateria ha sfamato, in quegli anni, moltissime bocche grazie agli assalti compiuti contro le navi da pesca straniere, che avevano la sfortunata occasione di far rotta nei mari somali. Successivamente, contatti diplomatici mirati hanno reso la zona più sicura fino a quando l’attenzione delle gang in cerca di denaro non si è spostata sulle navi commerciali, assaltate da gruppi affini attualmente, per strategia e regolamentazione interna, alle “migliori” organizzazioni criminali.
Attualmente nelle mani dei pirati somali si contano circa 40 navi: oltre 600 sono i marittimi in ostaggio, di cui 11 italiani – 5 sulla Savina Caylyn e 6 sulla Rosalia D’Amato, entrambe appartenenti ad una società armatrice napoletana, la “Fratelli D’Amato”.
La Savina Caylyn è stata sequestrata l’8 febbraio scorso: 17 indiani e 5 italiani sono finiti nella morsa dei pirati e, nonostante alcune trattative e rilasci apparentemente imminenti ma sempre sfumati nel nulla, gli uomini risultano ancora bloccati nel Golfo di Aden, dove le condizioni della prigionia sarebbero durissime e i contatti telefonici quasi impossibili. Inoltre, tra i pirati sarebbe in atto una scissione e la guerriglia tra i due gruppi contribuirebbe a rendere ancora più elevata la tensione a bordo.
La Rosalia D’Amato è, invece, ostaggio dei pirati somali dal 20 aprile e, anche in questo caso, la vicenda non sembra essere facile da sbloccare: la redazione di “Libero Reporter”, quotidiano online riuscito ad entrare in contatto con la nave, ha appurato dalle poche parole del capitano Giuseppe Maresca (anche lui campano, originario di Vico Equense), che le condizioni di vita sulla nave sarebbero a dir poco inumane. Oltre alla prigionia, infatti, i marittimi stanno sopportando la siccità, la scarsità di risorse alimentari e le continue angherie da parte dei sequestratori.
In queste ultime settimane, a distanza di mesi dai sequestri, le famiglie dei marittimi hanno deciso di insorgere e protestare affinché l’occhio delle telecamere sia puntato sulla vicenda dei propri cari, auspicando nell’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni preposte.
Ben 4 dei marittimi italiani di stanza sulla Savina Caylyn e sulla Rosalia d’Amato sono originari dell’isola di Procida ed è proprio da qui che è partita la protesta per la liberazione degli equipaggi e il pagamento dei riscatti richiesti.
La rabbia per l’indifferenza subita ha ormai preso il posto della fiduciosa attesa con cui le famiglie procidane si erano affidate alla Farnesina e alla società armatrice – che sin dall’inizio della vicenda ha dichiarato di voler contribuire al pagamento dei riscatti. Circa cinquemila persone si sono riversate in strada sabato 20 agosto, a Procida, al grido di “Liberi subito!”, invocando per l’ennesima volta l’aiuto dello Stato affinché si occupi del rientro in patria dei concittadini e dei loro colleghi di sventura. Non mancano gli striscioni polemici: “Somalia, Governo, Armatori. Chi sono i pirati?” e “Per questo riscatto non c’è da mediare, per la vita non c’è prezzo. E’ l’ora di pagare”. Del resto, è facile chiedersi quanto valga la vita umana rapportata ad un redditizio carico di petrolio (trasportato da entrambe le navi), quando per interi mesi si è vissuti in una sconcertante attesa e nella speranza di riabbracciare i propri cari, spesso lontani ma adesso anche in serio pericolo.
Quattro chilometri di marcia – da Marina Grande alla Marina Chiaiolella – ma soprattutto tante fiaccole a Procida, per illuminare la notte e mantenere accesa la speranza nell’isola, che attende, con ansia crescente, il ritorno dei suoi figli.
Sara Di Somma
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