Fino alla prima metà del novecento la letteratura europea si è autodefinita letteratura mondiale ma la fine delle colonie in Africa e Asia determinano un profondo cambiamento del paradigma culturale internazionale. La progressiva liberalizzazione da parte dei paesi colonizzati che ha avuto il suo culmine negli anni sessanta (l’India diventa indipendente dall’Inghilterra nel 1947, l’Egitto nel 1952, la Libia nel 1951, Marocco e Tunisia nel 1956 mentre l’Eritrea trova una propria indipendenza solo nel 1993) e la crescente internazionalizzazione culturale dovuta alla migrazione di intellettuali, ha portato la letteratura mondiale a riconoscersi in scrittori provenienti da ex colonie usando come lingua principale l’inglese. E’ il caso dello scrittore britannico di origine indiana Salman Rushdie, autore di testi importantissimi quali “The Satanic Verses” o “Mindnight’s Children”.
In Italia la letteratura di migrazione è caratterizzata da una forte presenza di temi comuni quali l’arrivo in Italia, la nostalgia, la scoperta del paese di immigrazione tra mito e demistificazione, l’importanza della cultura d’origine, l’elaborazione della storia del proprio paese e la vita nella diaspora. Tutti tratti che troviamo nel primo romanzo di Cristina Ali Farah “Madre piccola”, una narrazione che anche nel linguaggio ci mostra i caratteri tipici della letteratura di migrazione con l’utilizzo di plurilinguismo e mescolanza di termini. Non a caso il libro utilizza termini in lingua somala riportando la traduzione in un glossario finale, scelta che accentua l’ibridazione linguistica.
Non esiste lettura più attuale di questo romanzo. Da anni assistiamo agli sbarchi di rifugiati che fuggono dalla propria terra alla ricerca di un paese che possa dar loro una speranza, un futuro, un luogo dove ricominciare, storie che oggi sono diventate notizia quotidiana, quotidianità che troppo spesso sfocia in indifferenza. “Madre piccola” sembra dar voce ai protagonisti di queste tragedie e scava nel profondo delle anime di queste persone senza cadere in estrema drammaticità coinvolgendo il lettore in una storia che appassiona dalla prima all’ultima pagina.
L’autrice Cristina Ali Farah è una scrittrice italo-somala, nata a Verona nel 1973 da padre somalo e madre italiana, vissuta a Mogadiscio dal 1976 al 1991 quando è costretta a fuggire a causa della guerra civile. La Somalia lo ricordiamo, è stata una colonia Italiana di conseguenza la lingua e la cultura Italiana erano molto diffuse e allo scoppio della guerra civile l’Italia fu uno dei principali paesi di approdo per i rifugiati di guerra dimostrandosi in molti casi un paese deludente sia per la mancanza di leggi a tutela degli immigrati sia per la mancanza di un’assistenza sociale adeguata. Cristina Ali Farah narra appunto la storia di tre immigrati somali attraverso la voce di tre protagonisti principali, Barni, Taageere e Axad/Domenica. La loro voce si alterna insieme ai capitoli del libro e ci illustra l’esperienza dell’immigrazione attraverso la visione di tre persone molto diverse tra loro ma unite nel destino.
Axad e Barni sono cugine di sangue ma praticamente sorelle, sono cresciute insieme a Mogadiscio e hanno vissuto insieme le proprie disgrazie superandole grazie alla forza del loro amore “Della madre di Barni, addormentata tra le fiamme, non rimase quasi nulla. La sua morte, avvenuta nel culmine di un estate che stavo trascorrendo in Italia, cambiò radicalmente le nostre vite. Subito dopo Barni si trasferì a casa nostra e fu così che trascorremmo i tre anni seguenti come sorelle gemelle, dormendo in letti attigui, tenendoci per mano. Barni il mio pilastro, soffrì di incubi per molto tempo”.
Il libro è composto da 9 capitoli, ogni voce dà corpo a 3 capitoli ciascuno, in cui i protagonisti parlano tutti in prima persona e si rivolgono ad un interlocutore cambiando talvolta tono di voce adattandolo al destinatario del proprio racconto.
La lettura si apre con la voce di Domenica/Axad (alter ego della scrittrice, entrambe italo-somale di madre italiana e padre somalo) “Soomali baan ahay” (Somalo sono io)…. e ancora “il mio principio è Barni mentre mangiamo insieme nel piatto comune” sono le parole che colpiscono subito fin dalle prime righe del libro. Domenica attraverso un lessico chiaro, ma con l’utilizzo a volte di termini complessi a dimostrazione della padronanza della lingua italiana, si rivolge ad una psicologa e parla di sé stessa, della sua famiglia allargata in Somalia, del suo legame con Barni, della guerra civile. La comprensione dei fatti narrati non è del tutto immediata, il racconto spesso si apre a continue digressioni attraverso le quali conosciamo fatti di vita presenti e passati della prima protagonista.
Nei capitoli successivi e soprattutto in quelli finali Domenica/Axad narra la sua dolorosa diaspora e del suo progetto di realizzare un documentario sulla diaspora somala. Il dolore di quelle esperienze la porteranno a profondi disagi psicologici che sfoceranno in autolesionismo “Come profuga seguii il fluire di una diaspora che mi riguardava solo marginalmente, interiorizzandone le modalità, l’assenza di progettualità, la mancanza di mete. Ho peregrinato per quasi dieci anni, tra Europa e America, seguendo le mode che muovevano le masse dei giovani della mia età da un continente all’altro, da un welfare peggiore a uno migliore”.
Il Secondo capitolo ha la voce di Barni, la narrazione è più semplice e lineare ma anche qui non manca di continui salti temporali che complicano la comprensione del racconto. Barni è emigrata in Italia allo scoppio della guerra civile in Somalia a seguito della caduta del regime di Siad Barre e ha raggiunto un proprio equilibrio nella totale dedizione del suo mestiere di ostetrica e attraverso il colloquio con una giornalista per un reportage sulla comunità somala, parla dell’immigrazione, dei luoghi simbolo di questi viaggi nella città di Roma come la stazione Termini, della speranza all’arrivo in Italia che la guerra finisse, del dolore di tutti gli immigrati “Ha visto come sono rossi gli occhi delle persone appena sbarcate? E’ il rosso di tanto sangue visto”.
Attraverso la voce di Barni la scrittrice ci ricorda il nostro passato da migranti quasi a scuotere la coscienza di chi legge, come se non fosse già abbastanza scossa dalla lettura delle precedenti pagine “Ho una memoria selettiva lo premetto. Ricordo quello che voglio ricordare. E quello che voglio ricordare è una delle voci che vi sollecita a non dimenticare il vostro passato di emigranti”.
Il terzo capitolo ha la voce del fragile e debole Taageere, il personaggio che ha più difficoltà a raggiungere un equilibrio. E’ una conversazione telefonica, quella di Taageere con l’ex moglie Shukri, il racconto è sincero e disordinato trasmettendo al lettore la sensazione di confusione del protagonista. Racconta alla moglie le sue sventure nel tentativo di giustificare i suoi fallimenti di padre e marito dando la colpa agli eventi, al caso. Manifesta il suo desiderio di una nuova vita, il bisogno di realizzarsi come padre e marito, sogno che intende realizzare con la sua nuova moglie, Axad/Domenica.
Nei capitoli successivi Taageere parla sempre in prima persona ma si rivolge ad un mediatore culturale, il tono di voce cambia, è più colloquiale pur non perdendo la spontaneità delle precedenti narrazioni. Taageere in queste pagine narra della sua diaspora e del tentativo da parte della comunità somala di ritrovare le proprie radici riunendosi le sere d’estate e organizzando cene all’aperto “La cena dura tanto. Si sta con i materassi e si cena. I bambini poi fanno quello che vogliono”.
I capitoli si alternano con le voci dei tre protagonisti e piano piano i vari intrecci acquistano sempre più chiarezza, fino ai capitoli finali dove si tirano le fila del racconto e il quadro appare finalmente chiaro. Axad/Domenica e Barni dopo una dolorosa separazione si ritrovano in Italia e decidono di tornare al loro paese affrontano insieme la maternità di Domenica/Axad “Tornando abbiamo deciso. A mano a mano, superando confini, a mano a mano, ridiscendendo”.
Un libro straordinario, un esempio di letteratura di migrazione, di letteratura femminile, di vittoria dell’anima sulle sconfitte della guerra.
PATRIZIA DIOMAIUTO
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