Rintracciare la poesia nella vita di uno che ha fatto del pugilato la sua arte può essere un’impresa ardua. In effetti – potranno pensare in molti – c’è ben poco di poetico nell’immagine di due boxeur, muscolosi e incazzati nei loro calzoncini corti, che si rintronano vicendevolmente di cazzotti nel limitato spazio di un quadrato. Ma Muhammad Ali no. La sua boxe è stranamente, contrariamente a ogni regola o aspettativa, l’incarnazione della poesia, una poesia che si fa movimento. La si legge nei suoi salti leggeri, quasi come se danzasse, nello slancio della figura protesa verso l’avversario, nei pugni tirati con una forza che nulla sarebbe senza lo stile – e l’invidiabile tecnica – a cui si accompagna.
“Vola come una farfalla, pungi come un’ape”.
Questo diceva di se stesso colui che è passato alla storia come lo sportivo del secolo, il pugile più famoso e acclamato di tutti i tempi. E lui, la grazia di una farfalla ce l’aveva davvero, quando saltellava sul ring per schivare i colpi avversari; e anche la molesta attitudine punzecchiante dell’ape, aveva, non solo nelle mani chiuse a pugno, che pungevano (appunto) e gonfiavano mascelle e sopracciglia, ma anche nelle parole, un flusso continuo di offese e provocazioni – quel trash talking tanto contrario al bon ton – che avevano l’obiettivo di destabilizzare psicologicamente l’antagonista.
Molti pensano che la boxe sia una questione di forza bruta: menare fendenti a più non posso, tartassare di pugni ogni centimetro raggiungibile della superficie corporea altrui – evitando i colpi sotto la cintura, s’intende. Invece no: la boxe è innanzitutto questione di nervi. Di tempra mentale. Di sicumera psicologica. In una parola, di fiducia in se stessi. Salire sul ring con la convinzione che se ne scenderà in piedi, trionfanti. Solcare la soglia del quadrato con l’attitudine del vincente. Fidare nella vittoria è elemento indispensabile per ottenere successo; nella vita in generale, ma nella boxe ancora di più. Tutta una questione di volontà. Muhammad Ali lo sapeva bene. Credeva talmente tanto in se stesso da risultare addirittura fastidioso. Presuntuoso anche, se la storia non gli avesse dato ragione.
Campione dei pesi massimi per ben otto volte (1964-1967 e 1974-1978) e indiscussa stella del pugilato internazionale, Muhammad Ali nacque (1942) a Louisville, nel Kentucky, da una famiglia di afroamericani cattolici, con un nome dall’eco classica, Cassius, e un cognome da schiavo, quello dei padroni bianchi dei suoi antenati: Clay. Sono gli anni della segregazione e della discriminazione razziale, da cui un’America ancora provata dalla guerra fatica a uscire – ci riuscirà solo negli anni Settanta. Gli affronti razzisti sono all’ordine del giorno: si racconta che, prima di fare della boxe il suo destino, Cassius Clay abbia imparato a boxare per autodifesa, grazie agli insegnamenti di un poliziotto di quartiere. Il suo talento però non tardò a venir fuori: a soli diciotto anni (1960) vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma nella categoria dei pesi mediomassimi – medaglia che getterà nel letto di un fiume in seguito a un episodio verificatosi al rientro in patria, quando un ristoratore si rifiutò di servire il pugile perché nero, in segno di disprezzo contro un potere costituito che continuava ad avallare atti discriminatori da parte dei bianchi. A ventidue strappò il titolo mondiale dei pesi massimi a Sonny Liston, dopo un memorabile incontro che vide il campione in carica gettare la spugna (anzi, il paradenti) all’ottava ripresa, per poi essere nuovamente sconfitto l’anno successivo, atterrato dopo un solo round da un colpo di Clay che, apparentemente innocuo, passò alla storia come un “phantom punch”.
Destinato a lasciare il segno col suo “pugno d’acciaio”, la fama di Cassius Clay varca ben presto il limitato perimetro circoscritto dalle corde del ring: l’incontro con Malcom X, noto attivista politico per i diritti afroamericani, e la conversione alla fede islamica generano una presa di coscienza sempre maggiore della propria identità, come pugile, come cittadino americano, come nero. Cassius Clay ripudia quel suo nome da schiavo, e sceglie di entrare nell’Olimpo della Storia come Muhammad Ali. Il suo volo verso la realizzazione mondiale è appena iniziato. La testardaggine che gli fa vincere gli incontri di boxe è anche quella che gli fa opporre un netto rifiuto alla chiamata alle armi. La guerra non gli interessa, il Vietnam non lo riguarda.
“Non ho niente contro i Vietcong. Loro non mi hanno mai chiamato negro”.
Non è una questione di mancato patriottismo, ma una scelta convinta. Ali sa bene di andare incontro alla revoca del titolo, nonché della licenza di combattere. La sua decisione piomba pesantemente sull’opinione pubblica come una dichiarazione silente e caparbia di totale sfiducia nell’autorità di una nazione che troppo chiede ma quasi nulla dà ai suoi cittadini – soprattutto se afroamericani. Il campione “della gente”, come lui amava definirsi, scende dal quadrato e diventa davvero un punto di riferimento, “un simbolo positivo – scrive Gianni Minà – della controversa società nordamericana”. Senza bisogno di piegarsi alle regole del “marketing” sportivo. Muhammad Ali sarà campione, non come gli altri avrebbero voluto che fosse, ma a modo suo. Il processo per renitenza si concluderà con l’assoluzione di Clay, creando un precedente per la nascita della legge sull’obiezione di coscienza. Muhammad Ali potrà tornare sul ring, ma non sarà più quello di prima.
Accusato più volte di collusione con la mafia (si vociferò che gli incontri con Sonny Liston fossero truccati) e più volte denigrato per la sua povertà “intellettuale”, Muhammad Ali – il recalcitrante, il superbo, il testardo – resta uno dei più grandi atleti che questo secolo abbia conosciuto. Un uomo che ha saputo sfruttare la propria popolarità per divulgare le sue idee (in barba a chi le giudicava e tuttora le giudica limitate) e per lottare per gli ideali in cui credeva. Nella certezza che niente avrebbe potuto atterrarlo o tantomeno sconfiggerlo. Proprio come quando saliva sul ring. La sua determinazione l’ha reso un mito senza precedenti, a cui non si può non riconoscere lo status di leggenda vivente.
Giuliana Gugliotti
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