Caro Babbo Natale, quest’anno sono stato tanto tanto buono e vorrei…
Tutti noi abbiamo scritto, almeno una volta nella vita – ma quasi sicuramente più di una – una lettera che cominciava pressappoco così. Destinazione Lapponia o Polo Nord, a piacere. Destinatario unico: Babbo Natale. Eravamo bambini, crederci era bello; eppure la magia del Babbo più famoso di sempre continua a far sognare anche i grandi, quei bambini un po’ cresciuti che a Babbo Natale non ci credono più, ma ogni anno si ritrovano a sperare sempre un po’. A dirla tutta, Natale non sarebbe Natale senza di lui: tanto che basta pronunciare la parola per evocare immediatamente nella memoria l’immagine del vecchio, canuto, rosso vestito signore, con corredo di slitta e renne, sacco di iuta in spalla e barbone immacolato.
Fenomeno di costume e critiche anti-consumistiche a parte, il mito di Babbo Natale è talmente radicato nella nostra cultura – occidentale e non – da incarnare lo stesso spirito natalizio: l’affabile, sorridente bonarietà dell’opulento vecchietto dispensatore di doni cristallizza alla perfezione quella purezza un po’ stucchevole dei buoni sentimenti che a Natale animano anche i cuori di pietra alla Scrooge. Babbo Natale è ormai una tradizione irrinunciabile: da quando l’era consumistica ha introdotto la moda dello shopping ai grandi magazzini, non c’è bambino che non si sia seduto sulle ginocchia del figurante di turno a sussurrargli all’orecchio la sua personale lista di desideri. Ma la leggenda di Babbo Natale ha origini ben più antiche, e ben più realistiche di quanto credano gli scettici: centrifugato di diverse figure mitologiche risalenti a diverse epoche storiche, il moderno Santa Claus altri non è che il diretto discendente di san Nicola, vescovo di Myra – nell’attuale Turchia – vissuto nel IV secolo, più noto in Italia come san Nicola di Bari, città in cui le sue spoglie, trafugate da alcuni mercenari italiani, furono spostate svariati secoli dopo. La leggenda dipinge san Nicola come un colonizzatore evangelico ante litteram: data l’impossibilità – dovuta anche al freddo – di molti eventuali fedeli a recarsi in chiesa, egli introdusse per primo la moda della cristianizzazione domiciliare, esortando i parroci della sua diocesi a andare – a bordo di slitte trainate da cani, poi mutatisi in renne in seguito al trasloco di Babbo Natale al Polo Nord – di casa in casa portando ai bambini dei doni come incentivo a accogliere la parola di Cristo.
La fama di san Nikolaus – da cui per contrazione deriva l’appellativo Santa Claus – è in verità abbastanza diffusa: patrono di Amsterdam e della Russia, sue tracce si ritrovano anche nella tradizione di altri paesi europei, dall’Austria alla Repubblica Ceca: il santo è rappresentato con abito e copricapo vescovile, rigorosamente di colore rosso, a smentire la più moderna diceria che voleva un Babbo Natale originariamente vestito di un abito verde, diventato rosso solo in tempi moderni, in seguito all’adozione a scopo “pubblicitario” della sua immagine da parte della Coca Cola, che l’usò (1931) per sponsorizzare l’allora nascente bevanda, vestendolo dei colori del suo brand, bianco e rosso appunto. La festività di san Nicola cade tuttora il 6 Dicembre: quella era la data in cui i bambini dell’antichità aspettavano di ricevere i loro doni, prima che l’evoluzione storica spingesse a far coincidere quest’usanza con la ricorrenza cristiana della nascita di Gesù, a sua volta piazzata il 25 Dicembre in ricordo di una più antica festa pagana che celebrava la rinascita del Sole.
La leggenda di san Nikolaus si rintraccia secoli dopo addirittura nella Divina Commedia, Purgatorio XX: qui il nostro Dante ci racconta, lodandola, la generosità di un tale Niccolao, che, mosso a pietà dalla triste sorte che sarebbe toccata alle tre giovani figlie di un nobile caduto in disgrazia, per tre notti consecutive si recò presso la loro abitazione, lanciando attraverso una finestra aperta – e l’ultima sera giù per il camino, dettaglio da cui discende la particolare abitudine di Santa Claus di calarsi nei comignoli – tre sacchi di monete d’oro che avrebbero sostanziato la dote delle ragazze, altrimenti condannate alla prostituzione. Ma prima ancora che Dante ci illuminasse sulla compassionevole attitudine dello storico personaggio di san Nicola, tracce di una figura affine al moderno Babbo Natale si ritrovano nel folklore pagano, antecedente l’avvento della cristianità, di numerosi paesi. La mitologia germanica trova nel dio Odino un predecessore meno disinteressato del prodigo san Nicola: la leggenda infatti narra che Odino fosse solito organizzare una grande battuta di caccia durante la stagione invernale, e che i bambini lasciassero i propri stivali – poi diventati calze nella tradizione americana – ricolmi di carote e altri ortaggi accanto al caminetto, per sfamare il cavallo alato del dio – il Babbo Natale moderno è più egoista (nonché goloso): mince pie e sherry in Inghilterra e latte e biscotti negli USA non sono certo destinati alle renne! Inutile domandarsi perché Santa Claus abbia la pancia nonostante si faccia un giro completo del globo in una sola notte. Solo per riconoscenza il dio Odino riempiva poi gli stivali dei bambini di dolciumi e altre leccornie, le stesse che adesso – ironia dell’evoluzione storica! – sono invece destinate al rifocillamento di Babbo Natale.
La mitologia islandese invece è ancora legata alla tradizione dei tredici folletti natalizi, che la notte della Vigilia, dopo aver fatto un bagno nelle calde acque del lago Niva, portano ognuno un regalo ai bambini islandesi buoni – che quindi ricevono ben tredici regali: senza dubbio i più fortunati d’Europa! – mentre nei paesi nordici l’iconografia collettiva e l’immaginario popolare sono ancora legati alla figura della capretta Yule, sostituto animale del nostro Babbo, che la vigilia di Natale porta i doni ai bambini.
Leggende pagane a parte, l’immagine del Babbo Natale che tutti conosciamo sembra essere scaturita, in tempi più recenti, da due penne illustri: una, quella di Clement Clark Moore, scrittore newyorkese che in A visit from San Nicholas (1823) ci ha consegnato una versione moderna del Santo molto simile a quella dell’odierno Babbo Natale: un elfo vestito di rosso, con barba slitta e sacco pieno di giocattoli; l’altra, quella dell’illustratore Thomas Nast che per primo disegnò (1862) la fantomatica giacca rossa a Santa Claus, fornendolo anche dell’immancabile barba e di stivaloni neri.
L’evoluzione consumistica del Natale e la fantasia umana hanno fatto il resto: nel giro di un paio di secoli Babbo Natale, oltre a prestare la sua immagine allo sponsor della Coca Cola, ha preso casa al Polo Nord (in Lapponia per gli europei e per i tradizionalisti), si è circondato di una squadra di operativi folletti che provvedono alla costruzione, o almeno allo smistamento dei giocattoli, si è reso rintracciabile, dotandosi di un indirizzo – qualcuno dice anche di posta elettronica – a cui ricevere le lettere, si è equipaggiato di una slitta trainata da ben nove renne, e aspetta la vigilia di Natale per consegnare in una sola notte i giocattoli, regalando momenti di indimenticabile felicità ai bambini di tutto il mondo, che continuano, ammaliati e speranzosi, a tenere viva con il loro fiducioso abbandono una delle più belle credenze legate al Natale.
Che ci crediate o no, Babbo Natale – ma forse sarebbe meglio dire Santa Claus – esiste.
Giuliana Gugliotti
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