Ci sono due modi per ricordare George Best: il primo vi causerà rabbia, rimorso, dolore per non aver visto questo immenso giocatore esprimere tutto il suo formidabile ed inarrivabile talento; la seconda vi porterà gioia, un’incredibile stato di estasi e la privilegiata opportunità di aver potuto ammirare uno dei più grandi artisti sportivi mai apparsi sul pianeta.
So che molti di voi non saranno d’accordo, ma personalmente tendo a optare per la prima maniera. Le mancate realizzazioni sono come gli sprechi: covano alla loro ombra la furia che nasce dall’impotenza. E una vita come quella di George Best fa rabbia. Il mondo si divide tendenzialmente in due categorie di persone: ci sono quelle che, seppur prive di particolari talenti, fanno onore alla vita vivendola con la dedizione dei giusti, impegnandosi a realizzare le proprie potenzialità nella speranza di diventare qualcuno – e nel migliore dei casi ci riescono, seppure a costo di grandi sacrifici. E poi ci sono quelli che di talento ne hanno da vendere, ma, incapaci di gestirlo, incanalarlo, farlo fruttare, lo scialacquano, lo disperdono nei fumi di un’ubriacata in bar di provincia, alla tenue luce di una candela che illumina un’alcova proibita, lo sperperano al pari del vile denaro per comprare soddisfazioni effimere che, una volta consumate, lasciano dentro un vuoto che è più abissale di prima. Donne, alcool, macchine sportive. E un grande talento che purtroppo è rimasto inesploso, come quei botti di capodanno difettosi, pericolosissimi, che provocano conseguenze nefaste a chi, incauto, ne raccoglie gli involucri. Questo è George Best, la stella indiscussa del calcio moderno, colui ai cui piedi anche Maradona e Pelé si inchinarono, dichiarandolo un “idolo” e “il più grande giocatore del mondo”. Un uomo che ha saputo raccogliere solo i cocci di quel dono divino, racimolando briciole di ciò che avrebbe potuto essere, un simulacro spaurito di se stesso.
Irlandese di nascita, George ha solo 17 anni quando viene notato dagli osservatori del Manchester United: avrebbe potuto diventare il più grande calciatore di tutti i tempi, se avesse percorso quella via con un po’ più di impegno. Invece di lui restano solo numeri: poco più di 180 reti in 474 presenze e 12 anni di carriera al Manchester United, per non ricordare gli 8 anni trascorsi a giochicchiare nell’American League. 10.000 lettere al giorno ricevute dai suoi fans nell’epoca di maggiore gloria, quando, sombrero in testa, basette lunghe e capello al vento faceva squagliare ragazzine acclamanti come una rockstar, il famigerato quinto “Beatle”. 1 pallone d’oro vinto nel 1968 e poi rivenduto all’asta nel 2003 per pagare l’acquisto di una casa a Corfù, 1 condanna per guida in stato di ebbrezza e resistenza a pubblico ufficiale nonché svariate accuse di violenza carnale – anche da parte della moglie Alex, da cui divorzierà nel 2004. 2 Miss Universo, 1 trapianto di fegato subito nel 2002 dopo migliaia di pinte di birra consumate nei pub irlandesi e statunitensi, centinaia di sbronze terminate nell’ennesima fuga tra lenzuola anonime, ogni volta diverse.
E poi, 2 frasi che mi va di ricordare, che rendono giustizia all’uomo che fu George Best, e alla vita che condusse, restituendole un po’ di quel valore sperperato, che solo la consapevolezza di se stessi può dare. La prima, pronunciata probabilmente in tempi non ancora nerissimi, appare come una semplice constatazione dei fatti, una presa d’atto di ciò che è stato e non può essere cambiato:
Ho speso un sacco di soldi in alcool, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato.
La seconda, George Best volle che fosse scritta sotto una fotografia che lo ritraeva morente in un letto di ospedale, pubblicata dal tabloid britannico News of the World il 20 Novembre 2005:
Don’t die like me.
Non morite come me. Cinque giorni dopo, George Best moriva, a 59 anni, il fegato corroso da un’infezione epatica. Le sue ultime parole pubbliche furono di ravvedimento per lo spreco di se stesso, di buon esempio al prossimo? Forse si. Ma una vita come quella di George Best va presa non tanto come esempio, quanto come monito: non sempre genio e sregolatezza conducono alla piena realizzazione di sé. George Best ha passato una vita a cercare di colmare i propri vuoti interiori, di rifuggire i propri limiti. Trascurando così di investire sulle proprie (brillanti!) potenzialità. Vivere con pienezza non significa fare dell’eccesso uno stile di vita, ma saper anche rinunciare, accettare i limiti e impegnarsi a superarli facendo leva su ciò che si ha.
Giuliana Gugliotti
Riproduzione Riservata ®