“Una risata vi seppellirà”, recita una massima latina, mutuata nella più moderna espressione “morire dal ridere”. Personalmente, preferisco pensare che una risata allunghi la vita. Che nel momento del riso, un riso autentico, liberatorio, veritiero, la morte si riduca a uno spauracchio lontano, innocuo, depotenziato dalla forza trascinante della vita che esplode in una risata.
“Una risata vi renderà immortali”, dico io. Lo sapeva bene Massimo Troisi. Nato per ridere e per far ridere, Massimo Troisi sapeva incantare il suo pubblico con la spontaneità del suo dialetto strascicato, dei suoi gesti e delle smorfie accentuate, figlie di una napoletanità antica, non ancora corrotta dalla sguaiatezza di modi e dalla volgarità della mentalità camorristica, con la semplicità dei suoi disarmanti sillogismi, che senza pretese riuscivano a far ridere con una – e di una – normalità senza eccessi.
Massimo Troisi era un uomo normale, con l’eccezionale capacità di guardare al mondo senza filtri, da una prospettiva umile, bassa ma non per questo banale, coglierne l’assurdità e riderci su – anche se con un velo di malinconia: sfumata l’immediata reazione goliardica, quella comicità insita nella sua stessa visione del mondo lascia lo spettatore a riflettere, sulle labbra un sorriso (amaro?) che viene dopo il riso liberatorio e genera presa di coscienza, meditazione, consapevolezza.
Uno sguardo semplice e acuto insieme, malinconico ma leggiadro, posato su una realtà che a ben guardare è molto più lineare di quanto possa sembrare a chi è invece abituato ad abbandonarsi alla tentazione dell’interpretazione, dell’elucubrazione, della deduzione compulsiva. Niente di tutto questo appartiene all’essenza dell’uomo – che poi è lo stesso dire attore e regista – Massimo Troisi: le cose stanno come stanno, e spesso sono molto più semplici da capire di quanto si creda. Massimo lo sapeva bene, lui che era cresciuto in un paesello di provincia, quando la periferia napoletana era davvero periferica, stretto in un lembo di terra tra il mare e il vulcano, stipato in un appartamento di un palazzone pericolante insieme a una famiglia di altre diciassette persone. Una ristrettezza fisica che si è tradotta in un’ampiezza di vedute, che tuttavia mantiene quel tocco naif della semplice immediatezza di modi di vivere e pensare, e che senza perdersi in sofisticate speculazioni filosofiche conserva tutta la forza di una verità diretta, primordiale, universalmente condivisibile. Che scardina stupide convenzioni e ridicole ossessioni moderne, ridimensionando tutto a una profondità più autentica. Che fa ridere, per quanto è facile. Che quando la senti investirti in piena faccia con tutta la sua potenza rivelatrice ti verrebbe quasi da dire: “ah, come mai non ci ho pensato prima!”. Eppure non ci ha pensato nessuno prima di Massimo.
Forse Totò, forse Eduardo, precursori di quello stesso stile di comicità cui Massimo Troisi è stato paragonato, con grande vergogna per loro, come amava ripetere lui stesso: e anche in questo caso la sua umiltà aveva colto nel segno. Perché, se è vero che il Principe Totò e il maestro De Filippo restano due mostri sacri del teatro napoletano, c’è da dire anche che sono altre le tematiche permeano la loro comicità, nata in epoche forse ancora più disgraziate, e forse proprio per questo maggiormente impregnate (“contagiate”, se vogliamo) da influssi sociali e culturali che mancano invece nella poetica di Troisi, completamente scevra da qualunque tipo di contaminazione. Il suo modo di vedere il mondo era unico. Come disse anche Roberto Benigni: “Morto un Troisi non se ne fa un altro”.
Massimo Troisi continua anche da morto a farci ridere con quel suo modo un po’ rassegnato di prendere la vita con filosofia, che non passa mai di moda. Perché la vita questa è: assurda, incomprensibile, effimera bellezza. E se le cose non si possono cambiare, tanto vale salvare il salvabile. Ricominciare da tre. E soprattutto, non perdere la grazia di riderci su. Sarà proprio quella risata che darà un senso all’esistenza. E ci renderà immortali.
Giuliana Gugliotti
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