Abbie Hoffman occupa un posto tutto suo nella storia contemporanea. Non c’è stato nessuno come lui, nessuno capace di combinare uno spirito brillante e claunesco con una linea politica rigorosa. E non c’è stato nessuno capace come lui di unire, come con un colpo di grancassa, la rivoluzione culturale degli anni Sessanta con le tumultuose proteste per la giustizia razziale e contro la guerra nel Vietnam, e pochissimi che siano riusciti a trasbordare l’energia e l’impegno di quegli anni fin negli anni Settanta e Ottanta, senza un momento di pausa e senza incertezze.
Howard Zinn
Oggi un personaggio come Abbie Hoffman farebbe comodo anche a noi, alla nostra Itaglietta sfasciata dai debiti e all’Europa smembrata, sull’orlo di una crisi identitaria oltre che finanziaria e politica. Ma tant’è. Certi uomini, si sa, nascono una sola volta nella storia dell’umanità, e solo in certe parti del mondo.
Abbie Hoffman (1936-1989) non solo aveva una personalità unica, forgiatasi nell’humus fecondo degli anni Cinquanta, anni di bilanci post-bellici e rivoluzioni culturali nascenti targate USA, ma ebbe anche la fortuna di essere l’uomo giusto al momento giusto. Cresciuto – concettualmente parlando – sotto la guida di A. Maslow, esponente di spicco della psicologia umanistica che mette al centro della sua teoria l’uomo e i suoi bisogni, Abbie Hoffman concepì il dissenso civile come la più alta espressione della spinta umana all’autorealizzazione – quello che Maslow poneva in cima alla sua “piramide dei bisogni”: soddisfatti tutti quei presupposti basilari indispensabili all’esistenza, l’essere umano ha bisogno di credere in qualcosa. Ideali e valori per cui valga la pena lottare. Talvolta morire. La vita umana in fondo avrebbe poco senso se a darglielo non ci fossero queste fervide aspirazioni. Nessuno meglio di Abbie Hoffman conosceva questa verità; nessuno meglio di lui si è prodigato, con gioia e ironia, leggerezza e costanza a un tempo, a credere fermamente che qualcosa di straordinario potesse avvenire, che una vita sola bastasse a cambiare una realtà storica stratificata. Un cambiamento che mai come negli anni Sessanta – quelli degli hippies e della rivoluzione pacifista, dell’anti-capitalismo e della non-violenza, delle manifestazioni politico-studentesche contro la guerra, una su tutte quella del Vietnam – era desiderabile, imminente, necessario.
Sintonizzare la propria vita sull’attualità del periodo storico; fiutare bisogni nell’aria, farsene decantatore e promotore. Interpretare gli umori delle masse vessate, innescarne i fusibili psicologici che portano dalla mobilitazione al cambiamento sociale. Ecco cosa significa nascere al posto giusto nel momento giusto. Abbie Hoffman può essere a buon diritto considerato al pari di tutti quegli artisti, da Jack Kerouac a John Lennon, che con la loro opera hanno riempito di senso la ribellione culturale di quegli anni, incanalando la rabbia condivisa per le ingiustizie sociali contro il potere asfissiante e fuorviante della classe politica e dei mass-media, nella traiettoria di un reale cambiamento. Ispirazione e passione sono le uniche vie per vivere una vita con pienezza. E benché non fosse un artista, ma “solo” un attivista politico, Abbie era un uomo ispirato, eccentrico. Pazzo a volte, ma sempre appassionato. Non c’era niente che facesse senza una ferrea convinzione.
Non credo che i miei obbiettivi siano cambiati sin da quando avevo 4 anni e combattevo con i bulletti a scuola.
L’ironia e la provocazione erano le sue armi predilette. Come quando insieme al partito degli Hippy candidò alla presidenza un maiale – gesto dalle reminiscenze orwelliane. O come quando, processato per questo motivo, giurò sulla Bibbia alzando di tutta la mano solo un dito, il medio. O ancora, quando guidò – mistico potere della leadership! – 50mila persone all’espugno del Pentagono, che avrebbe dovuto levitare grazie all’energia psichica della folla. Abbie ci credeva veramente. E solo chi crede in ciò che è apparentemente irrealizzabile riesce a rendere possibile l’impossibile.
Arrestato (1973) per una storia di cocaina, lasciò ex moglie e famiglia per darsi alla fuga. Insieme a Johanna Lawrenson, ex modella e sua nuova compagna, trascorse sei anni rocamboleschi vagando in lungo e in largo attraverso gli States fino al vecchio continente: cambiò nome, si cambiò i connotati, cambiò stile di vita. Ma non cambiò idee. Tanto che durante la latitanza riuscì a tenere comizi, parlare alla radio, apparire nei programmi televisivi. Sfuggendo sistematicamente agli agenti dell’FBI. Che in 68mila pagine di dossier, comprendenti anche una relazione di due psicologi incaricati di analizzarne la personalità, non erano riusciti a inquadrarlo, perché davvero nessuno può inquadrare un uomo libero. Figuriamoci a trovarlo. Fu Abbie stesso a decidere di tornare a New York, per scontare quel che restava della pena, poco più di un anno di galera. Un piccolo prezzo da pagare per tornare all’attivismo. Che infatti lo vide protagonista ancora per tutti gli anni Ottanta, soprattutto nella mobilitazione degli studenti universitari, in particolare nella disobbedienza civile (1987) contro i reclutamenti della CIA nel campus della University of Massachussets che gli costò un nuovo arresto e un processo da cui fu assolto, ma che insieme alla depressione e alla tossicodipendenza lo uccisero. Morì nell’Aprile 1989, probabilmente suicida. Pochi mesi dopo, a Novembre, i berlinesi si riversavano in strada, scavalcavano il muro diretti verso Ovest. Era la fine di un’epoca, che Abbie aveva vissuto da protagonista, lottando contro tutto ciò che quel muro simbolicamente rappresentava. Anche se non c’era, Abbie era di sicuro là con loro.
Certo eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Ma avevamo ragione.
Abbie Hoffman
Giuliana Gugliotti
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