Deve essere stato uno spettacolo davvero inedito, quello offertosi a turisti e passanti in via D’Azeglio, Bologna, quella mattina di 1° Marzo. Dalle porte e dalle finestre aperte rifluiva un’onda continua di parole e note, i vicini che danno l’addio a un amico illustre, ognuno scegliendo la sua canzone preferita. Ma l’unico protagonista era lui. Lucio Dalla.
La notizia della sua morte improvvisa è arrivata dalla Svizzera – dove il cantautore era in tournée. Ha lasciato l’amaro in bocca delle mestizie inaspettate e ha colto tutti di sorpresa. Nessuno se l’aspettava, nessuna preparazione ha preceduto questa morte, non un malore né un malanno. La morte è arrivata e basta, a portarselo via, Lucio, forse proprio come avrebbe voluto, mentre lui stesso non ci pensava, era impegnato a fare altro. L’altro ieri, il famoso 4 Marzo, avrebbe festeggiato i suoi 69 anni. Invece è stato il giorno dei suoi funerali. I 50mila di Piazza Maggiore hanno fatto eco ai primi di via D’Azeglio intonando con commozione “Caruso” e “L’anno che verrà”.
Una prosa semplice, quella di Lucio Dalla cantautore, che cavalca musiche leggiadre dalle sonorità jazz, sperimentali, a tratti quasi liriche – gli archi dei violini, i clarinetti, i sassofoni – per entrare sottopelle senza farsene accorgere; e là si annida, e cova, carica di significati, come una grande verità che però è pure un poco risaputa, non è una grande scoperta. E allora resta là, senza nulla da chiedere o da pretendere, come qualcosa che si sapeva da sempre, niente di nuovo sotto al sole, nessuna novità da celebrare. E poi salta fuori nei momenti più impensati, di sconforto o di felicità estrema, ecco che ti risuona in testa, è una frase semplice, apparentemente banale, che sai da sempre e non capisci perché ti stia tornando alla memoria proprio adesso, forse perché rispecchia perfettamente lo stato d’animo di quel momento. E non sapresti dirlo meglio di come l’ha detto lui, Lucio, ed è per questo che ti viene in mente. Ecco. Lucio Dalla io l’ho scoperto quando ho saputo che era morto. Mi è salito un magone che non mi sarei mai aspettata. E solo allora ho capito che la sua musica mi aveva segnato dentro, mi aveva lasciato qualcosa che non sospettavo. Infiltrandosi senza clamore. Lucio Dalla non era un uomo di cultura; almeno non all’inizio della sua carriera. Per anni evitò di scrivere testi, timoroso, dietro la maschera clownesca e istrionica che gli piaceva indossare davanti al mondo, di non essere all’altezza dei suoi colleghi intellettuali e più raffinati. Si decise a scrivere soltanto alla rottura del sodalizio con Roberto Roversi, che in 4 anni (1973-1977) e 3 dischi (Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili) l’aveva portato al successo. Fu proprio l’esigenza di recuperare la spontaneità delle sue origini modeste (suo padre, morto quando Lucio aveva 7 anni, era direttore del club bolognese di tiro a volo, mentre la madre, pugliese di nascita, faceva la sarta) a spingere Lucio a troncare la collaborazione con Roberto Roversi, troppo attaccato ai discorsi politici e ai rigori dei lavori precedenti, per allargare la sua musica alle masse. Aveva bisogno di parlare al popolo, in quel modo schietto che poi ha caratterizzato tutta la sua produzione successiva. E fu un grande comunicatore, Lucio, di quelli che sanno parlare d’amore e del senso della vita come se discutessero del tempo o del prezzo della verdura. Senza peli sulla lingua o giri di parole inutili. Con genuinità. Senza presunzione. A volte addirittura senza parole, bastavano i fonemi strascicati dello scat, quel modo di cantare mangiandosi le sillabe, storpiandone la pronuncia o inventandole, per imitare i suoni caratteristici degli strumenti musicali, a trasmettere il messaggio.
Dagli anni Ottanta qualcosa si liberò; il piccolo Lucio uscì fuori, provò anche lui a volare. Ed è quello il Dalla che meglio si ricorda – quello delle collaborazioni con De Gregori e Morandi, con gli Stadio e Samuele Bersani, suo pupillo – e che più piace cantare. Lucio che amava Napoli e il mare, Lucio che tifava Bologna e giocava a basket, a dispetto della sua statura. Il Lucio Dalla che forse aveva in mente Andrea Rognoni (Radio Padania Libera) quando l’ha definito un “cantautore italiota dall’eclettismo un po’ fazioso e calcolato, mirato ad accontentare tutti i gusti del pubblico, ma specialmente quello del centro-sud”. Lo stesso che emerge dalle parole di padre Boschi, che ha celebrato il rito funebre:
Lucio Dalla veniva da un colloquio con Dio incredibile, la sua fede passava attraverso l’uomo e rifletteva la sua umanità. Lucio con la parola e con la musica scolpiva nelle nostre anime, attingeva dalla profondità con la sua sete di Dio e dell’assoluto.
E da quelle di Marco Alemanno, suo compagno negli ultimi dieci anni, quando l’ha salutato commosso alle esequie leggendo il testo de Le rondini, la canzone che l’ha “legato” a Dalla da quando era solo un bambino.
Fu la prima volta che mi commossi davvero. E chi lo sapeva che dopo qualche anno avrei incontrato per caso lo stesso signore che si era inconsapevolmente insinuato nel mio immaginario ancora infantile eppure già manomesso dalla forza evocativa dei suoi versi? Invece è successo. Oggi, a differenza di allora, conosco benissimo quel signore che canta Le rondini. Oggi posso spiegargli che cosa mi ha dato e continua a darmi. Oggi, insieme a voi, posso dirgli grazie.
Grazie, Lucio. Le inutili polemiche – sull’omosessualità, sul testamento – lasciano il tempo che trovano. L’eredità di un artista non si misura in danaro, né il suo valore dalle inclinazioni – sessuali e non. E Lucio Dalla ha lasciato ben altro patrimonio. Le sue canzoni. Quelle, per fortuna, non hanno prezzo e appartengono a tutti.
Giuliana Gugliotti
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