Antonio Tabucchi era italiano, ma ha vissuto gran parte della sua vita a Lisbona. Del Portogallo amava la lingua, l’umido vento di scirocco che spirava dall’Atlantico e il sole caldo che si infiltrava nei vicoli pendenti, che digradavano dolcemente verso il mare e il porto di Lisbona. Ma soprattutto Antonio Tabucchi amava le opere di Pessoa, che fu suo maestro d’elezione, scrittore e modello a cui ispirarsi. Lo amò istantaneamente, fin da quando ripescò un suo poemetto – Tabacaria, firmato con l’eteronimo Alvaro de Campos – su una bancarella di libri di seconda mano alla Gare de Lyon, Parigi, durante uno dei suoi viaggi giovanili. Fernando Pessoa gli instillò la passione per l’idioma portoghese, e in portoghese Tabucchi scrisse alcune delle sue opere migliori, come il romanzo Requiem (1992) e la raccolta di saggi Pessoana mínima (1987). La sua morte ci ha lasciato attoniti, dispiaciuti, amareggiati come se ad andarsene fosse un vecchio amico. Questo necrologio vuole rendere omaggio a un uomo che alcuni giornali hanno definito “il più europeo tra gli scrittori italiani”, capace di conciliare l’arte dell’introspezione e i profondi interrogativi sulla vita e sulla morte all’attenzione, non meno importante, a temi di attualità, politici e sociali, nella ferma convinzione che la Letteratura non possa sussistere se sganciata dalla Storia.
Se Antonio Tabucchi avesse scritto il suo necrologio avrebbe suonato più o meno così. Forse sarebbe stato censurato, o forse no, e allora sarebbe apparso nella rubrica “Ricorrenze” del sabato del Lisboa, piccolo giornale indipendente che nel ’38 inaugurava la sua pagina culturale sotto la direzione del dottor Pereira. Sarebbe stato molto meglio del mio, questo è ovvio, se l’avesse scritto lui che era un grande scrittore e di necrologi se ne intendeva. Però avrebbe avuto la stessa spontaneità e la stessa immediatezza, perché Antonio Tabucchi era un uomo semplice. E simpatico. Gli piaceva scherzare e non si prendeva mai troppo sul serio. Gli piacevano le citazioni letterarie, ma di quelle che alleggeriscono i racconti invece di appesantirli. Gli piaceva l’umiltà e infatti era un uomo umile. E poi sapeva narrare, con semplicità – dote rara. Ispirandosi alla vita, ai sogni o alla cronaca. Tracciava ritratti di uomini comuni, col loro bagaglio di esperienze usuali, usuali dubbi e usuali dolori. Gli antieroi erano i protagonisti indiscussi dei suoi romanzi. Personaggi come Pereira (Sostiene Pereira, 1994, premio Campiello), ma anche Tonino (Piccoli equivoci senza importanza, 1985), il giornalista Firmino (La testa perduta di Damasceno Monteiro, 1997, romanzo che, ispirato a un vero delitto che scosse profondamente l’immaginazione dello scrittore, spinse il colpevole alla confessione dell’omicidio), e lo stesso Fernando Pessoa de Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa (1994, autobiografia immaginaria raccontata in prima persona dallo scrittore portoghese rappresentato sul letto di morte). Riusciva ad affrontare con naturalezza discorsi profondi, il senso della vita e la morte, lasciava sempre un messaggio intriso di significati, non banale, che faceva riflettere. Un talento sempre più raro tra gli scrittori contemporanei, che spesso usano la narrazione come strumento di invettiva sociale. Oppure recidono ogni legame con la realtà per rifugiarsi in un mondo di ombre. Antonio Tabucchi invece riusciva a tenersi meravigliosamente in bilico tra queste due dimensioni parallele, fantasia e realtà, un piede a cavallo della letteratura e l’altro agganciato saldamente alla storia. Con levità sorprendente riusciva ad avvicinarle e quasi a congiungerle in una prosa fluida, lucidamente argomentativa, refrattaria ai capricci stilistici. Capacità che gli è valsa l’appellativo di “scrittore europeo” (La Repubblica).
Alla cerimonia funebre del 29 Marzo, che ha messo a riposare le sue ceneri nella sua Lisbona, accanto al suo mito Pessoa, in una cappella dedicata agli scrittori portoghesi nel cimitero di Prazeres, la sua nipotina Beatrice l’ha ricordato semplicemente come “un uomo onesto”. Onesto prima di tutto con se stesso, e per questo autentico. Antonio Tabucchi non si sentiva speciale, ma un uno come tanti. Amava sua moglie Maria José, nome che lui affettuosamente contraeva in Zé, e i suoi figli, Teresa e Michele, con cui trascorreva metà dell’anno in Portogallo. A Lisbona indossava l’abito dello scrittore, ma solo in senso ontologico. Nella realtà preferiva definirsi professore universitario, e infatti insegnava Letteratura all’Università di Siena, dove viveva per i restanti sei mesi all’anno. Diviso perennemente tra l’Italia e la Toscana in cui era nato (a Vecchiano, in provincia di Pisa, nel 1943), e il Portogallo e Lisbona che aveva scelto come patria elettiva, non avvertiva questa duplice appartenenza come controversa o sofferta, una crepa identitaria, ma piuttosto come tratto peculiare, un arricchimento della sua personalità, quella dell’“italiano che sognava in portoghese”, come amava definirsi con un pizzico di orgoglio. Collaborava alle pagine culturali de El País e del Corriere della Sera, e contribuì alla nascita de Il Fatto Quotidiano. Non temeva di discutere argomenti politici perché riteneva che storia e letteratura fossero indivisibili, assolutamente inutili e private di significato se sganciate forzosamente l’una dall’altra. Negli ultimi anni si era pronunciato con decisione sull’estradizione di Cesare Battisti condannando l’innocentismo francese, e sull’ascesa al potere di Silvio Berlusconi, che definì una “pericolosa anomalia democratica” senza per questo risparmiare le critiche all’opposizione.
Antonio Tabucchi viveva e pensava da uomo libero. Amava la vita come ripetizione incessante di sempre nuovi inizi, e scriveva per passione e senza chiedersi troppi perché.
“Si scrive perché si ha paura della morte? È possibile. O non si scrive piuttosto perché si ha paura di vivere? Anche questo è possibile.”
È possibile, non lo sappiamo. La morte però, quella temuta e celebrata nelle sue opere, alla fine è stata sconfitta. La letteratura (e la storia) hanno reso immortale Antonio Tabucchi.
Giuliana Gugliotti
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