Dal lungotevere al palco del Foro Italico – dove si è esibito lo scorso 4 luglio – il passo è breve. Sì, se ti chiami Alessandro Mannarino. Ha cominciato così, il cantautore romano che oggi sbanca i botteghini di tutti i teatri d’Italia con il suo tour teatrale di cui già il titolo suggestivo, “L’ultimo giorno dell’umanità”, fa viaggiare la mente attraverso scenari esoticamente visionari. Ha cominciato come cominciano un po’ tutti. Falò estivi e chitarra alla mano. Fino ad arrivare a calcare i palcoscenici più in vista, passando prima per “Parla con me” di Serena Dandini.
Alessandro Mannarino ha 33 anni e una determinazione che gli brilla accesa in quegli occhi di velluto che, a guardarli, “sembra di andar lontano”, tanto per citare un altro cantautore, suo metaforico mentore e modello a cui attingere inesauribilmente.
“Fabrizio de Andrè è un maestro, un poeta tra i più grandi della lingua italiana che si è messo sullo stesso piano degli ultimi che ha raccontato. Ho consumato i suoi dischi, era dotato di una fantasia straordinaria.”
E come Fabrizio de Andrè anche Alessandro Mannarino parla di emarginati. Zingari, barboni, ubriachi, prostitute. Una “città vecchia” che sembra rivivere, ricollocata in un ambiente che però degli anni ’60 conserva soltanto le atmosfere psichiche, trasmigrate in uno scenario metropolitano moderno, globalizzato e troppo spesso spersonalizzante. Dove il disagio non è più soltanto quello esteriore, ma anche quello profondo, umano, interiorizzato. I personaggi delineati da Mannarino appaiono così più eterei e impalpabili, meno verosimili, in un certo senso, seppur altrettanto reali di quelli proposti da de Andrè, figli di un’emozione passeggera o di una sensazione volatile, momentanea, più che di una riflessione antropologica accurata sulla società contemporanea.
Anche se l’influenza degli studi di antropologia si sente eccome, nelle sue canzoni. Quasi quanto si avverte quella esercitata dal fascino senza tempo delle ballate di de Andrè, della musica e della poesia popolare condita dall’influsso meno evidente di una tradizione politica conosciuta attraverso i racconti del nonno comunista e ex partigiano. Una coloritura, piuttosto che una connotazione politica vera e propria, che però non arriva a inficiare il senso dei suoi testi, costruiti invece intorno al perno di una più universale riflessione sul senso della vita e sulla natura umana.
Dagli stornelli popolari agli scenari metropolitani, dalle borgate romane (il cui ricordo filtra direttamente dai ricordi di un’infanzia vissuta tra san Basilio e Talenti) alle ambientazioni surreali partorite da una fantasia visionaria, Alessandro Mannarino riesce a conciliare nella sua musica i temi contrastanti dell’appartenenza storica e sociale a una città, Roma, che è allo stesso tempo provinciale e internazionalizzata, con l’universalità dei sentimenti umani, e in particolare, di un senso di spaesamento dell’uomo moderno che combatte quotidianamente contro la solitudine e la depressione, e che trova nell’amore (per se stesso, per l’altro, per la vita nella sua affascinante controversia di significati) e nella capacità, nonostante tutto, di emozionarsi ancora, l’unica via di salvezza della sua integrità di essere umano.
Giuliana Gugliotti
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