“La persistenza della memoria” Salvador Dalì
Ho scelto quest’opera ad affiancare l’analisi perché sposa il concetto.
Simbolo inconscio della relatività dello spazio e del tempo, tempo e memoria sono fluidi.
La Signora Dalloway (1925), è probabilmente il romanzo più celebre di Virginia Woolf.
Narra di una giornata a Londra vissuta da Clarissa Dalloway, donna di mezza età da poco ripresasi da una malattia, che sta organizzando una festa a casa propria per quella stessa sera.
Periodo di fervente sperimentazione, quello in cui e’ inserita V.Woolf e sull’esempio di Proust e di Joyce, lo traduce trovando la sua personale dimensione, associata a capacità di sintesi.
Virginia non apprezzava l’arte dell’irlandese, rozza dal suo punto di vista e mediocre.
Il “flusso di coscienza”, quella tecnica particolarissima di creare narrativa, una fiction, non più fiction, un plot per intreccio, per trama, per un susseguirsi di fatti e anche di sentimenti.
Nella loro tecnica, vi è poco di fiction. (il primo esempio di “flusso di coscienza” si trova nel romanzo Les lauriers sont coupés (1888) del letterato simbolista e dandy Édouard Dujardin).
Tipica del romanzo modernista novecentesco e vicina al monologo interiore, per cui i pensieri di un personaggio sono presentati così come si affacciano nella sua mente, secondo una rete di libere associazioni mentali.
Il rilievo conferito alla dimensione dell’inconscio soggettivo e’
sicuramente influenzato dalla psicoanalisi freudiana, che spalanca le porte dello studio della mente e del suo funzionamento profondo.
Come Proust, riesce a cristallizzare lo “sfuggente”, fissandolo su carta, aprendo totalmente lo spazio interiore mostrandolo.
L’innovazione linguistica, quel continuo flusso di coscienza nell’opera di Woolf diviene rarefatto.
Virginia Woolf aveva già iniziato a rivoluzionare il romanzo classico con il libro precedente, ” La stanza di Jacob”, dove adopera il “suo metodo” ma è con “Mrs Dalloway” che mette a punto la tecnica, riuscendo a descrivere delle realtà, degli aspetti della vita; l’innovazione parte fin dalla prima frase del romanzo:
“La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei”
Non vi e’ alcun preambolo che introduca gradualmente il lettore nell’ambiente e tra i personaggi, ci proietta direttamente nel libro, siamo negli occhi della scrittrice.
Come nell’Ulisse di Joyce, del quale riprende la struttura, anche qui la storia si svolge in un’unica giornata, siamo nel giugno del 1923 a Londra.
La trama è quasi inesistente, la giornata inizia con Clarissa Dalloway che esce per acquistare i fiori che le serviranno per il ricevimento che ha organizzato in casa sua quella sera e si chiude con la descrizione della festa.
All’interno di questa giornata abbastanza banale i personaggi e la storia vivono.
Una festa, il desiderio di un festa. La signora Dalloway si sveglia una mattina e pensa di organizzare una festa memorabile.
Non vi è un compleanno, nessuna ricorrenza particolare, ma lei vuole una festa. Esce per le strade di Londra, per Bond Street, cammina felice, compra dei fiori, deve essere la festa più felice della sua vita.
Si ferma davanti a una vetrina in Bond Street, guarda un oggetto simile a quello che tanti anni prima le aveva regalano Peter, un suo spasimante.
Invita tutti i suoi amici, prepara la cena, fissa i posti a tavola e ricorda i primi anni vissuti con il marito, Mr Dalloway, un giorno frenetico pieno di aspettative, l’attesa è l’essenza di ogni cosa.
Arriva il momento, arrivano gli invitati, ma ecco quello che non si sarebbe mai aspettata: il dottor Bradshaw riferisce agli altri invitati di un suicidio, e lei che voleva una festa gioiosa, spensierata, magica, sente che viene compromessa, guastata da quella notizia.
Si raggiunge qui il punto più intenso, quasi drammatico di tutto il romanzo: un giovane aveva messo fine alla sua vita, si era gettato da una finestra, lei, Clarissa, pensa a se stessa, a cosa avesse gettato della sua vita; idee, ricordi, il tempo sono il nucleo centrale del romanzo.
Il giovane suicida, Septimus Warren Smith, sconvolto dalla guerra, incapace di comunicare con il mondo perché alienato, compie il gesto estremo ponendo fine alla sua vita per comunicare.
Uno sguardo al passato, al proprio passato, un ritorno al presente che si intreccia, si avvolgono, il tempo non esiste, noi al centro, scorriamo inesorabilmente, i nostri pensieri scorrono, le nostre tristezze scorrono.
La non comunicazione ci porta alla comunicazione estrema, comunichiamo ponendo fine alla nostra vita.
Lasciarsi abbracciare dalla Morte e dalla Follia , le uniche compagne in un contesto senza comunicazione, indifferente e freddo, solo due alternative: suicidio o follia; temendo di impazzire, come Septimus(che in realtà era il suo alter ego), la stessa Virginia sceglierà la morte, lasciandosi annegare nel fiume Ouse.
Il Big Ben risuona, scandisce pensieri e il tempo, quest’ ultimo che è il protagonista.
“Le ore” sarebbe stato il titolo del romanzo scelto inizialmente, ogni personaggio si caratterizza, emerge in funzione del tempo, in rapporto a questa variabile.
Siamo colti da quella “variabile”esterna, palesata dal contesto storico, la data, dalla scansione delle ore, a quella interiore che si lega a quelle ” bellissime caverne” che si aprono (come una matrioska) nei personaggi: umanita’, profondità, umorismo, in comunicazione tra loro e che emergono quasi ad avere vita propria, al momento giusto.
PATRIZIA DIOMAIUTO
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