Mi capita spesso di domandarmi che cosa significhi essere giornalista. Mi vengono in mente tante possibili definizioni, stralci di discorsi sentiti pronunciare per caso, in conversazioni da bar o da veterani della professione; pezzi di riflessioni lette in qualche angolo remoto della rete, su giornali impegnati, in qualche libro. Poi mi si parano davanti agli occhi dei volti, alcuni con nomi più altisonanti di altri. Infine, mi viene in mente una frase, unica, breve, sonora, autentica.
“L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.”
Anna Politkovskaja la pensava così. Era una donna di poche parole, dalla scrittura scarna, tagliente, immediata, spinta dall’esigenza di dire più che di narrare. Le parole le usava come prolungamenti non certificati dello sguardo, anch’esso freddo e acuto, che posava sulla realtà: le sue parole le sono sopravvissute, oggi più affilate di prima, spade pronte a trafiggere l’incauto lettore che vi si imbatta per caso, fucili carichi, fruste pronte a schiaffeggiare il volto attonito dell’inconsapevole lettore che, seguendo i percorsi tracciati da quelle parole senza belletto, entra in contatto con una realtà sconosciuta, brutale anche per l’incedere con cui viene raccontata. Anna Politkovskaja usava le parole come lacci, connettori per mettere in contatto il mondo con una parte di mondo che altrimenti sarebbe rimasta sconosciuta, celata dalla censura dei regimi, soffocata dalla coltre di omertà e paura che sempre copre i più efferati crimini contro l’umanità. Le sue parole alla fine l’hanno tradita. Quelle stesse parole con cui avrebbe voluto ferire occhi e cuori di chi le leggeva, o almeno risvegliarne le coscienze, quelle stesse parole le si sono ritorte contro. Le sue parole l’hanno uccisa. Non furono i quattro bossoli ritrovati nell’ascensore della sua abitazione, insieme al suo cadavere, sparati dall’arma sporca di killer assoldati da chissà chi. Non fu la mano nascosta di un regime oscurantista a stroncarle la vita, a poco più di quarantotto anni. No. Furono le sue parole, parole che non avrebbe mai dovuto pronunciare. Furono le sue parole, e la sua determinazione a dirle nonostante tutto. Sacrificando la sua sicurezza, la sua famiglia, la sua vita. Anna Politkovskaja sapeva di andare incontro alla morte. Una consapevolezza che dà (ancor più) valore alla sua storia, lustro alla professione, peso specifico alla sua coraggiosa denuncia.
Figlia di diplomatici russi in terra statunitense, alla nascita assaporò la libertà dell’aria newyorkese degli ultimissimi anni Cinquanta, e quella libertà se la portò dietro tutta la vita. La Russia la richiamerà al suo seno, materno e soffocante insieme, ma non stroncherà quell’anelito di emancipazione appena assaporato alla nascita. Il giornalismo l’attrasse a sé come una necessità irrimandabile. Tenendo fede a quel suo succinto proposito, Anna si limitò a raccontare quello che vedeva. E per vedere andò in Cecenia, a documentare la rivolta di un popolo vassallo che, all’indomani del crollo dell’URSS, chiedeva indipendenza alla madre Russia. Un’indipendenza che mai sarebbe stata concessa, perché i gasdotti ceceni sono fonte di sostentamento primaria dell’economia sovietica. Una ribellione che fu repressa sanguinosamente, che vide fiorire le più atroci torture, soprattutto a danno dei civili, vittime privilegiate di qualunque atto di violenza. Anna Politkovskaja volle raccogliere quelle testimonianze, raccontarle con la sua penna pungente, dare voce alla voce degli oppressi. Ma non solo. Anna volle sollevare il velo, non limitarsi a “osservare tra la folla” come un reporter qualunque: credeva in quello che faceva, Anna Politkovskaja, e fu la sua convinzione di essere nel giusto a spingerla, in più occasioni, ad abbandonare il suo ruolo di giornalista per assumere quello di mediatrice, nel tentativo se non di risanare, quantomeno di limitare i danni di un conflitto che vedeva schierarsi da un lato le fasce estremiste dei ribelli ceceni, dall’altra un esercito russo male armato, i cui fili stavano saldamente nella ferrea stretta di Vladimir Putin. Che non poteva accettare che una cittadina russa si schierasse così apertamente contro il regime: perché cercare la conciliazione pacifica significava automaticamente essere fuori dall’ambito di ingerenza politica e psicologica del regime. E chi è fuori dal regime si trasforma automaticamente in nemico. Già durante la strage di Beslan, quando (2004) i ribelli ceceni – probabilmente guidati da frange islamiche – occuparono una scuola elementare trucidando quasi duecento persone, il tentativo della Politkovskaja di recarsi sul luogo con intenti mediatori fu stroncato sul nascere: Anna fu avvelenata mentre si trovava sull’aereo che avrebbe dovuto portarla a Beslan. Il suo potere faceva paura, perché era una delle giornaliste russe più apprezzate, in patria e all’estero. Una delle poche che avesse ancora il coraggio di raccontare la verità, così come la vedeva. La gente la stimava, e la loro stima, unita alla sua umanità e a un senso di giustizia intrinseca, aveva già in passato (2002) spinto la Politkovskaja a svolgere, durante la crisi del teatro Dubrovka e con discreto successo, quel pericoloso compito di mediazione che l’intervento delle milizie russe trasformò opportunamente in un bagno di sangue.
A conclusione (2006) di quella che è passata alla storia come la seconda guerra cecena, Anna non si era ancora rassegnata al silenzio. Le sue ultime indagini per la Novaja Gazeta, uno dei pochi giornali russi indipendenti, vertevano sulla verifica di testimonianze relative alle torture perpetrate ai danni dei cittadini ceceni dai militari russi: informazioni che, se fossero trapelate, avrebbero rappresentato un’onta intollerabile, e difficilmente giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica, per l’imperialismo russo. Bisognava tapparle la bocca, seccarle la penna. Fare in modo che quelle parole, vergognose, affilate come frecce, non scoccassero dalla faretra, non raggiungessero mai il bersaglio. Anna Politkovskaja fu giustiziata, ennesima vittima sacrificata sull’altare della verità. Una verità che è sempre più difficile da dire, ma che pochi coraggiosi riescono ancora a gridare, disperatamente, con forza. Anche a costo della vita.
“Bisogna essere disposti a sopportare molto per amore della libertà.”
Giuliana Gugliotti
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