“Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finita” [Enzo Biagi]
Arpad Weisz, nato a Solt il 16 aprile 1896, era figlio di un veterinario ebreo ungherese. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza a Budapest, ma fin da giovanissimo coltivò la passione che avrebbe contraddistinto la sua esistenza: il calcio. Giocò da esterno sinistro nel Törekvés, squadra ungherese fondata nel 1900, mostrando di avere talento. Passò poi al Maccabi Brno, al Padova e –nel 1925- all’Inter (allora Ambrosiana). La sua carriera, però, fu interrotta da un grave infortunio. Nel 1926 si allontanò e visse un anno in Uruguay. Tornato in Italia, si diede da fare per costruirsi come allenatore. Guidò l’Ambrosiana tra il 1926 e il 1931 e, negli anni milanesi, scoprì grandi calciatori come Giuseppe Meazza. Nella stagione 1929/1930 portò l’Ambrosiana a vincere lo scudetto, con Meazza capocannoniere (31 goal segnati in 33 partite); Weisz era all’epoca appena trentaquattrenne: questo farà di lui il più giovane allenatore ad aver vinto un campionato italiano (record tutt’oggi imbattuto). I suoi metodi, le sue idee, si rivelarono sempre più vincenti, utili e all’avanguardia, tanto da essere messe su carta. Nel 1930, insieme ad Aldo Molinari, Weisz firma “Il giuoco del calcio”.
La vittoria con l’Ambrosiana fu solo la prima di una lunga serie. Negli anni successivi allenò il Bari e il Novara; approdò, infine, a Bologna. Qui si stabilì con la famiglia (la moglie Ilona e due figli, Roberto e Clara); guidò la squadra della città vincendo lo scudetto per due anni di seguito (1936 – 1937) e portò lo stesso Bologna a vincere a Parigi contro il Chelsea nel 1937 alla finale della Coppa dell’Esposizione (la Champions League dell’epoca) con un netto 4-1. Weisz si consacrò ufficialmente come il più grande allenatore d’Europa. Nel 1938, tuttavia, Mussolini promulgò le leggi razziali, firmando un’impegnativa che obbligava tutti gli ebrei stranieri residenti in Italia da una certa data (1919) ad abbandonarla. Weisz, con la famiglia, si recò a Parigi e da qui in Olanda, dove allenò la squadra di Dordrecht. Weisz era solito indossare la tuta e scendere in campo con i giocatori, dai quali era sempre amato e rispettato. Nel 1942, però, la Gestapo bussò alla porta dei Weisz per deportarli nei campi di concentramento. Da lì il buio sul destino del grande allenatore. A ridargli luce è stato Matteo Marani nel suo libro “Dallo scudetto ad Auschwitz”. Con un lavoro immenso, mirabile, il giornalista bolognese ha ricostruito la storia di Weisz e i suoi ultimi anni. Dalle pagine del libro viene fuori il ritratto di un uomo forte, determinato, soprattutto sognatore: invece di scappare in Sudamerica, tentare di mettersi in salvo, Arpad decide di non abbandonare il suo lavoro, la sua passione, e allena una squadra olandese, proprio di fianco al nemico. Weisz si spegne il 31 gennaio del 1944 ad Auschwitz, quando il suo corpo –ormai privato dell’anima, della dignità, dei sogni, dell’umanità- l’abbandona e trova pace in una fossa comune. Pochi giorni fa Federico Buffa ha dato voce, su Sky, all’incredibile storia dell’allenatore ebreo: da vedere, per non dimenticare un grande uomo, per non dimenticare l’orrore.
Emiliana Cristiano
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