Dopo aver letto la sceneggiatura di The Lady, uscito nelle sale italiane lo scorso 23 Marzo, Luc Besson si è domandato come una donna che pesava scarsi 50 chili fosse riuscita a tenere testa a un esercito di 300mila soldati agguerriti. Una domanda che si farebbe chiunque, guardando negli occhi miti di Aung San Suu Kyi. Me la faccio anch’io, questa domanda. Ogni volta che incrocio una vita straordinaria, mi chiedo come sia possibile che un solo chicco di riso cambi l’equilibrio tra i piatti della bilancia, che una singola persona sia in grado di fare la differenza nel mondo. Forse Luc Besson la risposta l’ha trovata dietro la macchina da presa, girando il suo ultimo film dedicato alla vicenda, umana prima che politica, della donna che ha sacrificato tutta la vita – perché non c’è altro modo di definire una reclusione forzata di oltre 15 anni – alla sua patria, la Lady d’Oriente, orchidea di ferro che ha lottato – pacificamente – contro il regime militare che dal 1988 detta impunemente legge in Myanmar.
Oggi qualcosa sembra essere cambiato. Aung San Suu Kyi è una donna libera. Sta preparando la campagna elettorale – la seconda – per le prossime elezioni del 1° Aprile. Il peso del passato l’ha resa cagionevole – l’altro ieri Suu Kyi ha avuto un malore mentre in battello raggiungeva le isole Mergui – costringendola a una pausa forzata. Ma non ha intaccato minimamente la sua forza di volontà. Oggi più che mai Aung San Suu Kyi crede che quella libertà per cui ha tanto lottato sia a portata di mano. Basta volerlo con costanza e impegno. La strada della democrazia è ancora percorribile, anche in Myanmar. Soprattutto in Myanmar. Quando nel 1988 rientrò in Patria per assistere la madre malata, Suu Kyi non sapeva di andare incontro a un destino di reclusione forzata. Proprio in quell’anno un colpo di Stato mise il Paese in ginocchio. I ribelli venivano giustiziati, le minoranze perseguitate. I diritti umani violati. La gente moriva mentre il generale Saw Maung deteneva un potere usurpato. Aung SanSuu Kyi non viveva più in Myanmar. Se n’era andata negli Stati Uniti. Lì aveva un lavoro, una famiglia. Un marito e due figli. Una vita. Ma non poteva rinnegare le sue origini. La Birmania era ancora casa sua. Decise di lottare al fianco del suo popolo, fondò la Lega Nazionale per la Democrazia, si candidò alle elezioni. Le vinse, e fu arrestata. Iniziò così un’odissea che in pochi anni la condannerà agli arresti domiciliari.
Avrebbe potuto andarsene, Aung San Suu Kyi. Voltare le spalle alla Birmania e tornare negli USA. Mille volte sarà stata tentata dai militari che tenevano in ostaggio lei e la sua patria: firmare il foglio di via, tornare dalla famiglia, un marito e due figli, in quella terra democratica che generosamente l’aveva accolta durante la giovinezza, offrendole opportunità, un lavoro prestigioso, l’amore. Avrebbe potuto, ma non l’ha fatto. Invece ha scelto di restare. Confinata nella sua casa birmana frustata dai monsoni, a suonare il pianoforte e leggere e ascoltare la radio come unica distrazione, piuttosto che crescere i suoi figli e fare carriera alle Nazioni Unite. Piuttosto che assistere il marito malato, stroncato da un tumore nel 1999 senza che Suu Kyi avesse la possibilità di riabbracciarlo. Perché andarsene avrebbe significato siglare un patto col Diavolo, pagare la libertà con un prezzo troppo alto. Rinunciare per sempre a tornare in Myanmar. Suu Kyi non avrebbe mai abbandonato la sua Patria. Ci è voluta abnegazione, forza di volontà, capacità di sperare. Suu Kyi ce l’ha fatta. Non ha mai abdicato ai suoi ideali. Alla fine la sua paziente attesa è stata premiata. Nel 2010 Aung San Suu Kyi è stata liberata. Ora spera di vincere le elezioni, di poter guidare il suo Paese non soltanto alla democrazia, ma anche a una maggiore apertura – politica e commerciale – nei confronti dell’Occidente. Continuando il cammino iniziato da suo padre, il generale Aung San che condusse il Myanmar all’indipendenza dall’imperialismo inglese, ucciso in un attentato politico quando Suu Kyi aveva solo due anni, e di sua madre, Kin Kyi, che fu ambasciatrice in India e, sulla scia del marito, divenne una delle figure politiche di maggior rilievo della scena politica birmana.
Dal padre Suu Kyi ha ereditato la caparbietà, il carisma e l’ascendente sul suo popolo. Che ha coniugato ai precetti dell’altro suo grande maestro, Gandhi. I principi della non-violenza hanno riempito di contenuti la sua indole innata alla conciliazione pacifica, alla compassione e al profondo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti fondamentali. La vita negli Stati Uniti le ha insegnato invece la determinazione, la fiducia incrollabile nelle proprie potenzialità, l’amore per la giustizia. Tutte queste diverse forze hanno permesso e permettono ancora a Aung San Suu Kyi di continuare a lottare. E di fare la differenza.
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