Il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha depositato l’“Italicum” in parlamento: una nuova legge elettorale che dovrebbe garantire governabilità.
Numerose critiche sono scaturire dal concetto di premio maggioranza o soglia di sbarramento (da abbassare o aumentare a seconda gli interessi di parte): argomenti senza dubbio seri e opinabili.
Volendo seguire la storia delle riforme elettorali in Italia, si comprende come la strada del progresso e della civiltà sia stata lunga ma significativa: alcuni principi oggi dati per acquisiti, allora non erano neppure considerati (non sempre per egoismo della classe dirigente ma talvolta per problemi oggettivi).
La prima legge elettorale fu promulgata nel 1859 (antecedente all’unità d’Italia) per il “Regno di Sardegna” e poi applicata al “Regno d’Italia”: un sistema maggioritario e, per la prima e per ora ultima volta, a doppio turno (i due candidati entravano in parlamento attraverso il ballottaggio).
La peculiarità di questa legge consisteva non solo nel voto negato alle donne (solo molti anni dopo l’elettorato femminile ebbe il diritto di voto in Italia) ma addirittura nell’esclusione di una larga parte di cittadini: soltanto il 2% della popolazione italiana poteva votare.
Difatti potevano recarsi alle urne solo coloro che, compiuti i venticinque anni, possedevano un reddito di quaranta lire annuali, oppure di venti ma in grado di leggere e di scrivere (erano inoltre ammessi: magistrati, professori e ufficiali).
La scelta della classe dirigente può apparire classista, ma fu ragionevole, poiché il 78% della popolazione italiana era analfabeta al momento dell’unificazione.
La caduta della “destra storica”, portò al potere la cosiddetta “sinistra storica”, il cui primo gran rappresentante fu Agostino Depretis.
Durante la campagna elettorale, lo statista promise una serie di riforme che, attraverso vari compromessi, furono eseguite: la nuova riforma (promulgata nel 1882) vide la nascita grazie ad un’altra innovazione di Depretis, (ossia un biennio gratuito alle scuole elementari).
L’età dei votanti scese a ventuno anni ed ebbero i diritto di voto tutti quelli che avessero compiuto il gratuito biennio elementare (indipendentemente dal tenore di vita) o chi possedeva un reddito di diciannove lire e ottanta centesimi: di conseguenza la percentuale dei votanti si allargò al 7% della popolazione.
Seppur per un breve periodo (dal 1882 al 1891) fu abolito l’uninominale (maggioritario) e furono eletti cinque deputati per ogni seggio (proporzionale): la conseguente instabilità politica, diede l’impulso per un ritorno al precedente sistema.
La riforma può apparire ancora acerba, ma in realtà fu un enorme passo in avanti per quei tempi e determinò un grande esempio di civiltà.
Si dovette aspettare fino al 1912, quando Giovanni Giolitti promosse un nuovo allargamento elettorale (durante il suo quarto governo).
Da una parte l’età minima degli elettori aumentò (trent’anni al posto di ventuno) ma dall’altra si aggiunse l’obbligo del servizio militare come criterio del cittadino votante (oltre ai già citati di licenza elementare e censo): di conseguenza si alzò la percentuale degli elettori, ossia il 23,2% della popolazione.
In questo frangente si discusse l’opportunità di un voto femminile, ma la quasi totale maggioranza della camera decise di negarlo: curiosamente tra gli oppositori vi furono i socialisti (negli anni fautori dell’emancipazione della donna) che temevano un’influenza ecclesiastica sul pensiero femminile, evidentemente considerato labile.
Un grosso passo in avanti fu alla legge promulgata dal governo di Vittorio Emanuele Orlando nel 1919: nacque il suffragio universale maschile.
Probabilmente “partorito” dopo lo choc del primo conflitto mondiale, la legge dava la possibilità di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i ventun’anni (a dispetto dell’arretramento ai trenta del governo Giolitti) o che avessero prestato il servizio militare.
Dopo la breve parentesi della “riforma Depretis”, fu promosso il sistema proporzionale e abbandonato il maggioritario: lo scopo era di promuovere una maggiore partecipazione politica.
La novità, importante nel futuro della storia d’Italia, non fu solo la nascita del suffragio universale maschile ma proprio l’avvento del proporzionale: i democratici partiti di massa (il Partito Popolare Italiano e il Partito Socialista) incrementarono la loro forza, ma di conseguenza fu, seppur involontariamente, aperta la strada all’avvento del Partito Fascista (pur mantenendo la maggioranza relativa, il vecchio Partito Liberale vide calare i consensi).
Nel 1923, durante i primi anni del fascismo, fu approvata la cosiddetta “legge Acerbo” (dal nome del sottosegretario che la firmò) ossia famigerata riforma che fece da trampolino di lancio al partito di Benito Mussolini.
Il sistema restò proporzionale, ma, per la prima volta nella storia d’Italia, fu coniato il concetto di “premio di maggioranza”: se un partito avesse superato il 25% dei voti validi, automaticamente otteneva i 2/3 dei seggi in parlamento (alcuni partiti dell’opposizione cercarono di alzare la percentuale del “premio”, ma la maggioranza vinse).
Ovviamente le elezioni furono vinte dal Partito Fascista che ebbe un numero di seggi tale da instaurare una vera dittatura.
E’ curioso che tra gli aderenti a questa legge vi furono degli insospettabili politici “democratici”: gran parte degli esponenti del Partito Popolare Italiano (il “padre” della Democrazia Cristiana) e addirittura Antonio Salandra, presidente del consiglio liberale all’inizio del primo conflitto mondiale.
Terminata la dittatura del fascismo, i partiti della “liberazione” vollero dare una legge elettorale più democratica possibile: nel 1946 adottarono (per la prima volta in Italia) il suffragio universale femminile ed inoltre mantennero il proporzionale, senza alcun premio di maggioranza.
La legge fu in vigore per quasi (eccetto una breve parentesi) tutta la storia della Repubblica e fu abolita solo nel 1993: la maggiore rappresentanza delle forze politiche ebbe il difetto di creare governi instabili.
Nel 1953 ci fu un breve e contestato ritorno al “premio di maggioranza”: Alcide De Gasperi, stanco della tirannia dei piccoli partiti, propose il 65% dei seggi a chi avesse raggiunto il 51% dei consensi.
De Gasperi era chiaramente convinto che la Democrazia Cristiana ottenesse la maggioranza assoluta, ma dovette ricredersi: causa alcuni piccoli partiti che si staccarono per “sabotare” la legge, la lista della Dc (unita ad altri partiti) si fermò al 49,8% e sfiorò quindi “l’impresa”.
Il tentativo di riforma fu definito “legge truffa” e scatenò un memorabile scontro, anche fisico, in parlamento: nell’aula furono scagliati più oggetti possibili (sedie, calamai, tavolette di legno scardinate e taglia carte), i fratelli Pajetta usarono i braccioli delle sedie come armi improprie, il ministro Pacciardi e il Presidente Ruini rimasero feriti, Ugo La Malfa e Mazzoni furono schiaffeggiati (il secondo ingiustamente, da una deputata che lui voleva proteggere), due senatori furono presi a calci nel sedere e Giulio Andreotti pensò di ripararsi con un cestino dell’immondizia in testa.
Alcide De Gasperi accusò talmente la sconfitta da abbandonare l’attività politica e morire un anno dopo: la riforma fu ovviamente abbandonata
I referendum del 18 aprile del 1993, attraverso una sconfitta clamorosa della vecchia classe dirigente, decisero di abolire il sistema proporzionale e riportare in auge il sistema maggioritario (dopo una lunga pausa dal 1919), probabilmente in grado di portare una maggiore governabilità.Il democristiano Sergio Mattarella ideò una legge che salvò una parte del vecchio proporzionale, proponendo un sistema misto: 75% maggioritario e 25% (attraverso un complicatissimo “scorporo”) proporzionale; la legge obbligava i partiti ad unirsi in coalizioni.
La riforma fu ribattezzata “Mattarellum”, dal nome del suo promotore e durò fino al 2005, assicurando talvolta stabilità parlamentare.
Infine nel 2005, Silvio Berlusconi volle a tutti i costi, una nuova legge elettorale, proporzionale ma con un redivivo “premio di maggioranza” (osteggiato perché ricordava il fascismo e la “legge truffa “ di De Gasperi), stavolta senza una soglia definita: inoltre furono decise diverse percentuali di sbarramento, a seconda che il partito fosse singolo o in coalizione.
Il senato ebbe una complicata procedura a base regionale, tale da poter avere una maggioranza diversa dalla camera.
A detta del relatore della legge, il leghista Roberto Calderoni, la semplice legge fu complicata dalle volontà degli alleati: il politico leghista la definì una “porcata” e da qui nacque la definizione di “porcellum”.
La riforma creò talvolta legislature “bloccate” e le molte voci di protesta culminarono nell’odierna riforma di Matteo Renzi: sperando che il progetto, sulla contestata base Renzi-Berlusconi, porti stabilità e maturità politica.
Rey Brembilla
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