Il senso pieno della vita è in quelle ventiquattro ore che s’allungano, si dilatano e pilotano l’esistenza là dove conduce il cuore: da Napoli a Pechino e dalla Cina a Londra – individuata come futura residenza – prima di rimettersi in volo (simbolicamente), atterrare a Fuorigrotta, osservarla dall’alto per ridisegnarla ad immagine e somiglianza ma con proiezione nel futuro. Ciak, si vira: e il De Laurentiis che spazia in quegli «universi» – il football, il cinema, l’economia che barcolla, il paese che implode – s’è messo in testa una serie di idee meravigliose da elaborare con cura. Il prototipo collaudato d’una rivoluzione «industriale» è quel Napoli ed i suoi otto anni, avviati (ri)partendo dalla cantina impolverata del 2004, un titolo e manco uno straccio di calciatore, l’impressione (reale) d’essersi accomodati intorno ad una «tabula rasa» per (ri)cominciare. Il futuro è adesso, è sempre, è in quella visione quotidiana della palla di vetro in cui andare a leggere con attenzione, per scrutarne i mutamenti, pure quelli impercettibili, per sentirsi ed essere attivi ed avviare un progetto dietro l’altro, esibendo un dinamismo a tutto campo ch’è di complesso contenimento: il grande campionato europeo e poi il san Paolo da rifare – magari utilizzando Edenlandia e lo Zoo – per avvicinarsi sensibilmente (e strutturalmente) al Real Madrid e al Barcellona, Michel Platini e il fair play finanziario; la separazione «inevitabile» da Lavezzi e l’incedibilità assoluta di Insigne; le malsane abitudini del passato d’un sistema spendaccione e l’indispensabile esigenza di avanzare rapidamente e d’andare incontro al domani. Che sarà sempre un altro bel giorno d’azzurro dipinto.
Cosa vede all’orizzonte De Laurentiis?
«Un calcio nuovo, che vada concentrato laddove c’è storia del football ed economia da sviluppare intorno ad esso. Un universo che offra spettacolo, con un campionato continentale, che vada a sostituire la Champions ed elimini l’attuale Europa League, sparso tra Spagna, Inghilterra, Francia, Germania e Italia e che faccia di ogni partita un’attrazione».
Il modello Nba la stuzzica.
«Un progetto articolato, serio, studiato a tavolino dai massimi esponenti dei club-pilota d’un movimento che non può restare all’età della pietra. Il rinnovamento è quotidiano, chi si ferma è vecchio. E poi, c’è già disparità. L’automobilismo ha la Formula 1, la Formula 2, la Formula 3: e pure noi – ma forse non ce ne vogliamo rendere conto – abbiamo società che viaggiano a diverse velocità. Eppure continuiamo a lasciarle gareggiare assieme. Tanto per dirne un’altra, la nostra Serie A va portata a sedici squadre».
Il fair play fu la sua prima battaglia: spese oculate, ingaggi contenuti.
«E ora mi pare che solo arabi e russi stiano fuori da questa logica, perché tutti più o meno si stanno adeguando. Sarà curioso scoprire come faranno nel 2014 il Psg, il Chelsea e il Manchester City a rientrare nei parametri imposti dall’Uefa. Perché la legge dev’essere uguale per tutti e, soprattutto, non deve offrire la possibilità dell’inganno: va tenuta la guardia alta, evitando che si raggirino le regole, magari andando a coprire il disavanzo con un contratto di sponsorizzazione quinquennale chissà quanto reale».
Milan e Inter hanno invertito la rotta.
«Una volta esisteva il concetto del patron al servizio del club: spendevi, ci rimettevi ed eri costretto a ripianare le perdite. E’ stato il frutto di una passione genuina ma dispendiosa. Ma perché bisogna sprecare danaro? A me sembra che dover riconoscere 11-12 milioni di euro netti a un calciatore sia pura follia. E probabilmente lo pensa anche il tifoso comune: al di là della crisi che viviamo, il buon senso impone certe scelte. E però il calcio trascina fuori dagli schemi e a volte anche dalla logica. Poi sono arrivati gli sceicchi, ma loro hanno il petrolio che sgorga dalle tasche».
C’è un costante desiderio di novità, un invito ad intervenire massicciamente sul mercato.
«Ma alla gente vanno spiegate le dinamiche: i fans sono abituati a ragionare innanzitutto con il cuore e l’attaccamento alla maglia, la voglia di primeggiare, spingono per le novità. Secondo me basta invece essere sinceri, illustrando le strategie: si compra quel che serve, non per il gusto di farlo. Noi avevamo e abbiamo un piano e lo rispettiamo: e tenete presente che nel solo 2012, al capitolo uscite, sono stati addebitati ventinove milioni di euro serviti per avere Vargas, Gamberini, Behrami e di acquisire pienamente Pandev, che mi pare un calciatore di fascia elevatissima».
A proposito di acquisti e però anche di cessioni: ci si affeziona ad un giocatore (o anche ad un attore)?
«Immagino dove voglia arrivare: è giusto lasciare libertà e quindi permettere di fare scelte diverse. Ma il Napoli è forte lo stesso, nonostante la partenza a cui lei fa riferimento».
E’ andato dritto al cuore della domanda: Lavezzi.
«E’ stato leale: mi aveva chiesto un anno fa di andar via, glielo promisi. Ci incontrammo in barca, fu un colloquio franco, sincero. Si è comportato bene. Sentiva dentro di sé la necessità. E poi comunque qui nessuno può escludere che un giorno lui non torni da noi».
Disse una volta: maledette le clausole rescissorie.
«Devo dire che invece l’ho rivalutata, perché ha stabilito un punto di partenza alto. Il Psg non si sarebbe mai spinto sino ad un certo punto, anzi era distante, diciamo mirava al basso. L’ho trascinato fin dove s’è potuto. E poi, brutalmente: ma un calciatore che va verso i 28 anni se non lo cedi ora, a queste cifre, quando pensi di poterlo fare?».
Torniamo ai legami con i protagonisti…
«Io sono cresciuto con Sordi e il mio primo film importante, Un borghese piccolo piccolo, l’ho fatto con lui. Come vede, si può. Però il calcio è vagamente diverso e la natura degli uomini anche lo è, senza con questo voler fare discriminazioni».
I suoi cicli sono quinquennali: dove deve arrivare il Napoli entro il 2014?
«A livello strutturale, mi piacerebbe riuscire a trascinarlo alla pari di Real Madrid e Barcellona. Ho avuto modo di parlare con il sindaco De Magistriis, che incontrerò venerdì: discuteremo del San Paolo, degli interventi necessari e di quelli auspicabili».
Il tempio di Maradona non si tocca?
«Semmai si migliora, si ingrandisce, si adegua, si restaura. Dal Comune sono stato invitato a prendere pure Edenlandia e lo Zoo. Può essere un’ottima idea e ci sto; però a patto che lì possa sorgere una vera e propria cittadella dello sport, quella che vorrei definire la casa del Napoli. La immagino con otto campi per le varie attività, con un’area destinata al beach soccer, con altre zone per il calcio femminile. Potrei essere anche interessato al «vecchio» Collana, si potrebbe dar vita ad una polisportiva. A me le soluzioni non mancano».
La prima cosa da fare?
«Smontare quella orribile e dannosa copertura e lasciarla ai cinesi, che sarebbero disposti a portarla via. Poi studiare seriamente e immediatamente le soluzioni per rimuovere l’inquinamento acustico di Fuorigrotta. Io il nuovo san Paolo ce l’ho dinnanzi agli occhi: palchi con tv, gli spalti a ridosso del campo, ristoranti, zone divertimento, settori completamente rifatti».
Ciò che invece non rifarebbe?
«Sono arrivato nel calcio e ho avuto fame di nozioni. Chi ha fretta di imparare, qualcosa sbaglia. Ma va messo nel conto. Però penso che i risultati siano lì ad elogiare il lavoro compiuto».
La partita che le è andata di traverso?
«Quella vinta con il Chelsea. Gli avessimo fatto il quarto gol, o fosse finita 3-0, saremmo passati noi probabilmente. E poi chissà dove saremmo arrivati: magari dove sono stati capaci di arrivare loro».
Meglio adesso o nel 2004?
«Mi sembra meglio, anche se si fatica a mettere a nudo tutte le verità scomode».
Ha spesso detto: siamo vecchi.
«Io sono arrivato alla presidenza del club a 54 anni, dunque con una personalità definita. Umilmente ho studiato il calcio. Sono andato a prendere gli sputi in testa a Martinafranca e sono rimasto chiuso nello stadio a Foggia. Un processo bulimico, ma di apprendimento. Siamo arrivati quassù e però adesso bisogna uscire dal passato e questo è un compito di Platini. Non si può procedere in questo modo, ne ho parlato con Rummenige: l’Uefa mostri ciò che sa fare, altrimenti si faccia da parte; oppure l’Eca avvia costruttivamente il proprio movimento e dica: signori, gestiamo noi».
Parlare del mercato non le piace più di tanto?
«Non amo parlare di soldi. E poi di Cavani ho detto, di Insigne ho detto, di Balzaretti pure e dell’eventuale ventiduenne, su Vargas posso dire che per accelerare il processo di inserimento potremmo mettergli al fianco un traduttore».
E su Raiola…?
«Non alimento polemiche a distanza. Ero stato ironico e spiritoso con lui, ma non l’ha capito…».
Mazzarri ha osato: se vinco lo scudetto smetto di fumare per un po’…
«Intanto lui non nomina quella cosa lì. E però m’è piaciuta questa scommessa. E potrebbe addirittura farne un’altra, visto che poi senza sigarette soffrirebbe troppo: che dopo aver vinto il primo, per riprendere vinca pure il secondo».
E’ un ingordo pure lei…
«La gente vuole essere felice…».
Fonte: Corriere dello Sport
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