Che fine ha fatto la libertà di stampa? E con essa la libertà di espressione, di pensiero, di dissenso? Libertà è una parola grossa, dal respiro troppo ampio perché un Paese con il fiato corto come l’Italia possa ancora permettersi di pronunciarla; libertà è una parola dal sapore sempre più amaro, come un caffè non zuccherato nel Paese in cui il caffè è un culto; una parola che stordisce come luce negli occhi nel Paese del Sole. La libertà (di stampa, di pensiero, di dissenso) in Italia è una contraddizione in termini; un controsenso forsennato di chi corre in autostrada contromano nell’illusione di trovarsi sulla corsia giusta. Che fine ha fatto la nostra libertà? E soprattutto, ne abbiamo mai avuta una?
La libertà di stampa in Italia ha avuto una storia controversa: certo se si pensa che la prima vera testata italiana, “Il Secolo”, primo giornale a diffusione nazionale e discreta tiratura, nasce nell’avanzato 1866, seguito a ruota dall’intramontabile “Corriere della Sera” (1876), si arriva alla conclusione che la lettura dei quotidiani in Italia (o almeno nell’Italia unita) è un “hobby” relativamente recente. Ma d’altronde è l’Italia stessa ad avere una storia giovane di unità: difficilmente si sarebbe potuta concepire l’esistenza di un quotidiano nazionale prima ancora che una nazione venisse costituita. Dall’unità d’Italia in poi, la libertà di stampa fu regolata dalle leggi già in vigore nello Statuto Albertino del conquistatore Regno di Sardegna, prima di subire un nuovo fendente durante l’era di Mussolini, sotto le censorie restrizioni del Regime fascista, alcune rimaste in uso fino a giorni troppo recenti. L’Italia dovrà aspettare la fine della Seconda Guerra Mondiale, e la conseguente caduta di fascismo e monarchia, per darsi una Costituzione “democratica” (1947) anche in materia di informazione, su cui la Chiesa non mancò di esercitare il proprio potere (spirituale?) per imporre la salvaguardia della morale, della decenza e del buon costume. L’articolo 21 della nostra Costituzione si presenta quindi come bizzarro risultato di una malriuscita mediazione tra due forze opposte e contendenti: se nei primi due punti vi si legge democraticamente che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure […]”, all’ultimo capo invece si legge (ecclesiasticamente?) che: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.
Si alla libera stampa/espressione dunque, ma senza mai contravvenire alle regole della moralità e del bon ton. Si inizia in quest’epoca a delineare la condotta politico-democratica dell’Italia moderna, che oggi conosciamo tanto bene. Fin qui la storia. Quello che accadde dopo è cronaca dei giorni nostri: l’avvento dell’era mediatica, la Tv pubblica e quella privata, Mr B. e il conflitto di interessi, la legge Gasparri e il decreto “salva-Rete quattro”. L’Italia che nel 2010 finisce, dopo anni di infausta carriera discendente, al 72° dei 192 posti nella classifica della libertà di stampa mondiale, surclassata addirittura da Suriname e Nuova Guinea, da Taiwan e Corea del Sud, unico paese “democraticamente occidentale” ad avere una stampa solo parzialmente libera. La censura in Italia ha una carriera di tutto rispetto, se confrontata a quella della libertà di stampa: governi autocratici e potere ecclesiastico hanno sicuramente avuto parti influenti in questo scenario, ma a preoccupare veramente, più che le decisioni governative o le ipotetiche ingerenze della Chiesa nei palinsesti di televisioni e giornali è l’atteggiamento di un’intera nazione che appare ignorante, bigotta e ridicolmente autoritaria mentre finge di essere aperta e all’avanguardia, tollerante e rispettosa, preoccupata (fin troppo) della salvaguardia della democrazia, della par-condicio e di mantenere intatta la maschera del famoso “buongusto”. Facciamo qualche esempio.
Libertà di stampa (e di televisione). Recentemente ha fatto scalpore la proposta di un sedicente deputato, tale Alessio Butti, capogruppo Pdl della Commissione di Vigilanza Rai, di limitare a una volta alla settimana la trattazione di un certo argomento di attualità, senza distinzione tra le diverse reti Rai, ovvero: se l’argomento X viene trattato di lunedì dal programma Y, non potrà essere trattato da nessun altro programma, Z, W, K, sia che questo programma vada in onda sulla stessa rete del programma Y, mettiamo Raiuno, sia che vada in onda sulle altre due reti, Raidue e Raitre. La proposta, che si cela dietro la pallida scusa di “garantire pluralismo”, e che non pare essere destinata alle altrettanto nazionali reti private, è senza dubbio un affronto alla libertà di informazione, un duro colpo per il giornalismo italiano; oltre a essere vagamente anticostituzionale (vedasi il succitato art. 21). E giù tutti a criticare (a ragione, per carità) un governo che, nelle parole di un’indignata Lucia Annunziata, inizia a “preparare il bavaglio” in vista delle elezioni. Ma facciamo un altro tipo di considerazione: di cosa si sono occupati ultimamente i nostri programmi di approfondimento “politico” e non? Omicidio Sarah Scazzi? Ruby e il Bunga-bunga? La vita sessuale del Premier? In linea di massima, con le dovute eccezioni, questi sono gli argomenti “caldi” all’ordine del giorno. E mentre Floris e Travaglio già gridano al complotto anti-opposizione, a scannarsi saranno i vari Bruno Vespa e Massimo Giletti, che si faranno guerra a colpi di plastici e opinionisti, ma alla fine dovranno rinunciare all’overdose da Bunga Bunga e rassegnarsi a cambiare argomento.
Libertà di informazione. L’Italia è il Paese dei perbenisti e dei moralisti. Ma forse sarebbe meglio dire dei falsi perbenisti e falsi moralisti. Basta poco a scandalizzare un italiano medio, e sicuramente ci è riuscito uno spot francese, ideato dall’agenzia TBWA nell’ambito di una campagna di sensibilizzazione anti-Aids, che in Italia non vedremo mai perché giudicato forse troppo scandaloso (http://www.youtube.com/watch?v=T09dCynarvo&feature=player_embedded). A differenza di tutti quei varietà che quotidianamente mettono in mostra le sinuose fattezze di aspiranti veline/conduttrici/deputate, o di spot commerciali, meno espliciti in materia sessuale ma allusivamente molto più volgari (vedasi la famosa pubblicità delle “patatine” mangiate da Rocco Siffredi) che però fanno fare tanti introiti. Viene da chiedersi dove vada a finire in questi casi il senso del buongusto e del buoncostume tanto osannato e ricercato dalla Chiesa.
Libertà di espressione. Un po’ meno recente, ma sempre attuale, è stata la proposta di un altro sedicente signore, tale Raffaele Speranzon, assessore alla cultura della provincia di Venezia, di rimuovere dalle pubbliche biblioteche i libri di tutti quegli autori (dichiarati “persone sgradite”) che nel 2004 furono firmatari dell’appello in cui si richiedeva la scarcerazione dell’ex brigatista Cesare Battisti (attualmente residente in Brasile). La proposta (cui fa eco il più recente appello della Lega a boicottare “Vallanzasca –gli angeli del Male”, ultimo film di Michele Placido tacciato di “elevare a eroe uno spietato assassino” e di “utilizzare giovani e affascinanti attori allo scopo di sdoganare l’immagine di personaggi che dovrebbero cadere nell’oblio per i crimini commessi”) prevede altresì la rinuncia a organizzare qualunque tipo di attività insieme a tali scrittori, e afferma la diretta responsabilità dei bibliotecari che contravverranno a quest’imposizione. E anche qui siamo dinanzi a una proposta anticostituzionale, che limita pesantemente la libera espressione delle proprie opinioni addirittura alla più ampia categoria (artistica, non giornalistica) di scrittori e romanzieri. A sparire dagli scaffali sarebbero anche gli acclamatissimi Tiziano Scarpa e Daniel Pennac, giusto per fare due nomi. Siamo ai limiti dell’assurdo, e tuttavia a ben guardare non si capisce perché il signor Speranzon si dia tanta pena a proibire la lettura di testi che, pur se scritti da indubbi rivoluzionari-comunisti-simpatizzanti-brigatisti, probabilmente nella maggior parte dei casi poco o nulla hanno a che vedere con la politica, le Brigate Rosse e Cesare Battisti, molto di più con l’arte e la letteratura, la cultura in generale. Soprattutto dal momento che se si vuole ascoltare un parere “attivista marxista” non c’è bisogno di cercare messaggi criptati in romanzi e racconti, basta (per citare un solo esempio) leggere Adriano Sofri, scrittore e giornalista, ex militante di Lotta continua, accusato e condannato per l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, oggi (come è giusto che sia) completamente riabilitato. I cui libri non pare siano mai stati tolti da nessuno scaffale di nessuna biblioteca. Almeno finora.
E mentre l’Italietta del Bunga Bunga guarda magnetizzata agli ipnotici balletti mediatici di Premier e collaboratori, affidandosi disperatamente a uno spauracchio di sinistra ormai inesistente per una improbabile “rinascita”, loro, i “governanti”, senza distinzione di colore e partito, tentano di “conquistare il mondo”, di acquisire il monopolio dell’informazione e della “verità”, non senza il colpevole plauso della stampa. L’Italia è diventata una parodia di se stessa, che si accanisce inutilmente tentando di ammazzare la propria ombra, senza rendersi conto che quell’ombra le appartiene, e che è essa stessa a proiettarla.
Giuliana Gugliotti
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