Un argomento scomodo, ma necessario. La disabilità femminile conta 1 milione e 860mila donne in Italia. Sotto elezioni – oltre ai problemi legati alla giustizia, all’inquinamento dell’aria e alla privatizzazione dell’acqua – si discute dell’universo femminile sempre più ai margini della società. Poche sono state le candidate alle liste, troppo poche in verità. In un mondo che vede emergere Hillary Clinton e Angela Merkel, l’Italia si pone agli ultimi posti per le famose quote rosa all’interno del governo e delle amministrazioni pubbliche.
Si parla di democrazia. Tutti si riempiono la bocca con questa parola. Eppure vanno contro questo principio e questo valore tutte le condizioni in cui le donne disabili si ritrovano a vivere. Non basta essere donna per essere discriminata, anche la disabilità diventa una colpa da mortificare. Come rivendicato nel corso dell’iniziata tenutasi a Roma lo scorso 9 Maggio (convegno dal titolo Disabilità al femminile tra coraggio e violenza), non si vogliono creare doppie realtà (quella femminile in contrapposizione a quella maschile). Si tratta di diritti inespugnabili di cui molte donne non godono e per cui nessuno mobilita la massa, magari semplicemente informandola. Il promotore dell’iniziativa, Antonio Guidi – delegato del Comune di Roma alle politiche della Disabilità – , ha voluto dare una speranza e una voce a queste donne. Un universo composto, lo ricordiamo, dal 6,1% della popolazione femminile italiana, una realtà che conta su un valore raddoppiato rispetto a quella maschile. Un obiettivo e una promessa che si concretizzano nell’incontro previsto per Luglio dal titolo Vita indipendente, “una sfida che può e deve essere davvero una priorità nella modulazione dei servizi e dell’agenda politica” secondo Guidi.
Non ci soffermiamo su una sola tipologia di disabilità. Facciamo riferimento a qualsiasi difficoltà fisica o psichica che, statisticamente, si presenta in età adulta. Lo svantaggio registrato dalla relazione annuale Istat evidenzia uno posizione sfavorevole maschile tra i venticinque e i quarantaquattro anni a causa delle condizioni di salute, che si acuisce maggiormente per le donne tra i quarantacinque e i sessantaquattro anni. A meno che non siano processi indotti da una predisposizione genetica e, quindi, comparsi con la nascita, anche un incidente o una malattia cronica possono condurre ala disabilità. Si tratta di processi degenerativi che riducono l’autonomia della persona. Si prendano ad esempio patologie quali l’osteoporosi o l’artrosi, oppure l’infarto e l’ictus, che limitano progressivamente le attività quotidiane. Per quanto concerne i disturbi psichici, i più diffusi tra gli uomini sono schizofrenia e relativi disturbi, quali ansie e processi dissociativi della personalità. La donna, in compenso, aggiunge alla lista appena indicata anche i disturbi senili e organici derivanti dall’età.
Secondo i dati Istat, di cui sopra, le donne sono colpite maggiormente da patologie croniche. Si parla di una percentuale pari al 65,5% a fronte del 55,9% degli uomini. Situazione che si ristabilisce in tarda età con un valore del 60,8%. La geografia delimita anche le regioni in cui vi sono maggiormente casi di disabilità in famiglia. Il sud Italia sconta l’organizzazione poco curata dell’amministrazione pubblica. L’assistenza, infatti, non ha sgravato sulle famiglie (costituite anche da una persona disabile) soprattutto in Puglia, Calabria, Campania e Abruzzo.
L’istruzione è un dato importante da segnalare. Nel 2004 si dichiarano iscritte ad un corso scolastico o universitario 114 mila persone con disabilità (dati Istat). Una disabilità grave per il 37,8 percento, medio per il 40,8 percento e basso per il 21,4. Gli insegnanti di sostegno sono un elemento fondamentale per la vita scolastica delle persone affette da disabilità, per quanto la maggior parte dichiara di non averne realmente necessità. In seguito, le aziende sono tenute a rispettare i deficit psicofisici della persona grazie alla normativa che impone una valorizzazione delle capacità lavorative. In questo modo si riesce a garantire un’identità lavorativa grazie ad un tutoraggio e un accompagnamento della persona per entrare nel mondo del lavoro. Anche in questo caso le percentuali dichiarano un enorme svantaggio a discapito delle donne che, tra i quindici e quarantaquattro anni, possono contare solo sull’inserimento del 13,9%. Si tratta di quasi dieci punti percentuali in meno rispetto agli uomini.
Ancora troppo pochi i centri e le associazioni che aiutano il processo di inserimento nella società della persona diversamente abile. Filosofia diffusa maggiormente al Nord che prevede l’aiuto anche delle Istituzioni e delle Amministrazioni Pubbliche. Meno fortunati sono il Sud e le donne meridionali. Le associazioni difficilmente riescono ad usufruire dell’aiuto statale per mantenere in piedi le strutture. Il più delle volte sono le persone vicine a sobbarcarsi gli oneri di quello che dovrebbe essere un diritto del cittadino e non un’ ulteriore dimostrazione d’amore da parte di chi sostiene il recupero della persona disabile.
Roberta Santoro
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