La mercificazione del corpo della donna ha, da sempre, un riscontro positivo in termini di fatturato. Non si sa per quale strana ragione. Un sedere, un seno in trasparenza, un qualsiasi prodotto affiancato alle forme sinuose di una ragazza avvenente fa scattare nell’immaginario collettivo una reazione positiva alla vendita. Dall’intimo all’alcolico, dall’elettrodomestico al mobile. Oramai siamo talmente abituati a vedere nudità nelle pubblicità che non realizziamo l’eventuale mancanza di rispetto per ciò che viene mercificato. Dinanzi ad alcuni cartelloni o spot pubblicitari sorge davvero il dubbio se sia in vendita il prodotto o il corpo.
La colpa non è del pubblicitario. La sua professione deve scuotere l’immaginario per raggiungere lo scopo del suo cliente: la vendita. Il “come” lo decide inevitabilmente la massa. Nel corso degli anni le ricerche di mercato hanno dimostrato che il corpo della donna, spersonificato di qualsiasi connotazione del reale, rappresenta uno stereotipo che attira inconsciamente l’occhio del pubblico. Lo stereotipo in questione viene investito del ruolo che l’ipotetico cliente finale medio vuole vedere. Dalla casalinga/mamma moderna alla bad girl, dalla donna in carriera alla femme fatale. Numerose le maschere da prendere in considerazione prima di uno scatto fotografico pubblicitario.
Molti professionisti del settore tendono a dissociarsi da quest’idea. Nel corso di una puntata di Matrix in cui si è parlato del documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo, il Presidente dell’ADCI (Art Directors Club Italiano) – Massimo Guastini – ha rilasciato la seguente dichiarazione prendendo le distanze da quanto si assiste ultimamente “…nessun creativo di razza vede favorevolmente l’utilizzo del corpo femminile come strumento per attirare l’attenzione. Anzi, lo consideriamo il refugium peccatorum degli incapaci. La ragione è semplice. Crediamo che il nostro compito sia avere grandi idee per dare valore alle marche. Ma non c’è nulla di grande, nulla di particolarmente creativo nel piazzare un corpo mezzo nudo su un poster o in un commercial se non ha nessuna pertinenza con il prodotto. Così sono capaci tutti. I soci Adci sono allergici a scorciatoie e banalità”. Ma allora perché la donna è passata dall’essere il soggetto/obiettivo della pubblicità al suo oggetto per vendere? Perché il suo corpo (o semplicemente la sua immagine priva di “vita”) ha assunto questa posizione di rilievo nella pubblicità persuasiva?
La risoluzione n.2038 del 2008 del Parlamento Europeo sull’impatto del marketing e della pubblicità sulla parità tra donne e uomini sottolinea la necessità – come si legge – di buoni esempi nel campo dei media e della pubblicità per mostrare che un è cambiamento è possibile e auspicabile; ritiene, inoltre, che gli Stati membri dovrebbero ufficializzare l’aggiudicazione di un premio da parte dell’industria pubblicitaria ai propri appartenenti e di un premio da parte del pubblico per i messaggi pubblicitari che si allontanano maggiormente dagli stereotipi di genere per dare un’immagine positiva e valorizzante delle donne. Solo quest’anno l’Italia sta prendendo in considerazione l’idea di aderire, in modo praticamente tangibile, a questa risoluzione. Per fortuna, grazie all’istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, gli eccessi americani non arrivano sui nostri magazine e per le nostre strade. Come l’immagine che accompagna quest’articolo che è stata bloccata in quanto “trascende i limiti del semplice cattivo gusto e offende la sensibilità altrui […] è ritratto un atto offensivo e un abuso nei confronti della donna”.
Roberta Santoro
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