“Desidero semplicemente raccontare che cosa ho sperimentato ad essere ebrea”. Nei confronti “della gioventù che oggi viene educata già dall’età più tenera ad odiare gli ebrei […] noi, che siamo stati educati nella comunità ebraica, abbiamo il dovere di rendere testimonianza “.
Un dovere morale, quasi un imperativo categorico, quello di lasciare ai posteri una traccia palpabile del proprio passaggio su questa terra. Per insegnare alle nuove generazioni a fare meglio, a non ripetere gli errori dei padri e a offrire ai figli un futuro migliore.
Un’opera che ogni essere umano dovrebbe compiere per realizzare se stesso secondo natura. Un’opera che Edith Stein (1891-1942) ha compiuto egregiamente, consegnando al mondo un messaggio di speranza e fede –non soltanto fede in Dio, ma, nella sua accezione più ampia e meno mistica, fede nell’Altro come essere umano – che tuttora non ha perso di fascino né di attrattiva.
Personalmente non sono cattolica (forse sarebbe più giusto dire che non mi sento cattolica), eppure non ho potuto fare a meno di restare affascinata dalla vita – e dalla filosofia – di questa donna. La religiosità di Edith Stein non è un puro atto di fede trascendente, ma un’attività di costante, immanente ricerca della volontà di Dio nelle azioni umane. Una volontà divina che Edith Stein ha saputo vedere proprio in un periodo di grande crisi storica e profonda confusione spirituale, in cui tanti, troppi, sembravano voltare le spalle a Dio e all’uomo.
Nata a Breslavia, oggi in Polonia, nello stesso giorno (12 Ottobre) della festività ebraica dello Yom Kippur, giorno dell’espiazione, e ultima di dieci fratelli, Edith Stein incontrerà ben presto gli orrori della guerra e della follia Nazista, che continuerà, nonostante la conversione al cattolicesimo, a perseguitarla fino a darle la morte.
Allieva di Husserl, studiosa di Scheler e più tardi profonda conoscitrice, nonché traduttrice, di San Tommaso d’Aquino, la Stein porrà sempre grande attenzione, nei suoi studi e nelle sue ricerche filosofiche, all’essere umano inteso non soltanto come creatura di Dio, ma anche come tramite – immanente – attraverso cui giungere infine alla conoscenza di se stessi, di Dio e del nostro mondo.
Nella metafisica di Edith Stein pare talvolta di udire una eco di quell’arcaico concetto dell’uomo come mezzo e “misura di tutte le cose”; un’idea classica che però, a ben guardare, ritorna in quello che è uno dei dogmi della religione cattolica, il dogma della Trinità, ovvero la fede in un Dio che si è fatto uomo, il Credo nell’“umanizzazione” di Dio attraverso suo figlio Gesù, che non a caso affascinerà la filosofa fino a suscitarne la conversione spirituale.
Sarà proprio questa possibilità di “umanizzare” un Dio prima avvertito come irraggiungibile e sovrumano a suscitare l’interesse di Edith Stein nei confronti del cattolicesimo: dichiaratasi atea a soli quattordici anni, femminista convinta durante gli anni del liceo, quando entrò a far parte dell’Associazione Prussiana per il Diritto Femminile al Voto, e all’Università di Gottinga, dove, dopo aver ottenuto un dottorato, si batté per ottenere l’abilitazione alla docenza per le donne, fu l’incontro con la filosofia, in particolare il pensiero Husserliano che, rispetto all’esasperazione del soggettivismo Kantiano proponeva un “ritorno all’oggettivismo”, a gettare il seme della futura conversione della Stein.
Scriveva la Stein: “Sono alla ricerca di soluzioni puramente obiettive”. Dio risiede nella realtà obiettiva del mondo, e cosa può esservi di più oggettivamente vero per l’uomo se non la sua stessa vita, i rapporti che intrattiene col suo prossimo? Il Dio di Edith Stein è un Dio empatico, quello che, sceso in Terra, si è sacrificato per i suoi figli e abita ora sulla croce; un Dio con cui l’uomo comune non deve temere di entrare a colloquio diretto, perché Dio è ovunque, e prima di tutto nell’umanità stessa di ciascun individuo, paradossalmente tanto più quando l’uomo sembra averla smarrita.
Grazie a questa certezza incrollabile Edith Stein trovò spiegazione agli orrori nazisti; solo così le fu possibile conciliare il proprio destino, non a caso di Espiazione (come suggeriva già la sua data di nascita), con quello di un popolo, quello ebraico, di cui si sentiva figlia pur non professandone più la religione.
La fuga in Olanda – nel convento Carmelitano di Echt – e la conversione alla religione cattolica non bastarono infatti a sottrarla al campo di concentramento: la lettura di un proclama anti-nazista in tutte le chiese olandesi voluta dalla conferenza episcopale (1942), provocò la violenta reazione di Hitler, che ordinò la cattura di tutti i convertiti ebraici, fino a quel momento risparmiati grazie a un tacito accordo con il Vaticano, che si impegnò inizialmente a mantenere il silenzio sull’Olocausto; lo stesso silenzio che la Stein aveva denunciato in una missiva a Pio IX, datata 12 Aprile 1933, in cui supplicava il Pontefice di non tacere più sulle persecuzioni contro gli ebrei. Edith Stein fu catturata insieme alla sorella Rosa alla fine di Luglio, e condotta a Auschwitz, dove morì il 9 Agosto 1942.
Queste sono le ragioni che hanno spinto Papa Giovanni Paolo II a beatificare (1987) e canonizzare (1998) Edith Stein, in religione Teresa Benedetta della Croce, come una “figlia di Israele rimasta unita a Cristo e al suo popolo”, che nella lotta contro i Nazisti e nella sopportazione della persecuzione e del martirio subito a Auschwitz, avrebbe dato prova incrollabile della sua fede e della natura miracolosa dei suoi atti.
Un miracolo di quelli che si consumano sotto silenzio, giorno per giorno, senza grande scalpore. Edith Stein è riuscita a veicolare al mondo un messaggio di amore universale e di fiducia incrollabile in un Dio che vive innanzitutto attraverso l’uomo: il vero miracolo consiste appunto nell’attualità e nella profonda verità e umanità del suo pensiero.
Giuliana Gugliotti
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