Elezioni 2013, vince l’astensionismo

Con questa crisi, economica ma soprattutto politica, per i partiti è tempo di bilanci. E quale migliore occasione di quella offerta dalle elezioni amministrative, tecnicamente "tasta-polso" in scala della situazione a livello nazionale, per farsi un'idea di quali prospettive attendono l'Italia?

Tempo di crisi, tempo di bilanci. Queste elezioni amministrative 2013 si sono svolte in sordina, quasi in punta di piedi, con in bocca l’amaro di una crisi politica che perdura, nonostante i governi tecnici, le grandi coalizioni, i bis presidenziali e l’avvento dei Cinque Stelle. Tutte cose che non hanno apportato nessun cambiamento al quadro: l’Italia attraversa una crisi politica senza precedenti dalla fine della prima Repubblica, checché ne dicano loro, gli esperti o presunti tali, quelli che la politica la fanno – o fingono di farla.

A emergere con prepotenza infatti è proprio il dato dell’astensionismo: hanno un bel dire i rappresentati del Pd, primo fra tutti il segretario Epifani, che queste elezioni sono state un “risarcimento per la sinistra e una vittoria per Bersani”; se è vero che le amministrative non smentiscono le antiche tendenze dell’elettorato a restare ancorato al bipolarismo (lo sa bene il M5S, protagonista di un clamoroso flop) e vedono consumarsi, nella tradizionale battaglia Pd-Pdl, una parziale vittoria del Partito Democratico, è anche vero che il dato che maggiormente salta all’occhio a termine di questa tornata elettorale è uno solo: gli italiani non sono andati a votare.

La percentuale dei votanti è scesa in media di 15 punti percentuali. Solo il 62,38% è andato alle urne ad esercitare il suo diritto di voto. Il resto degli italiani è rimasto a casa. Un dato, questo dell’astensionismo, che scende a livelli preoccupanti proprio nella Capitale, cuore pulsante della vita politica italiana: a Roma ha votato un cittadino su due, un’affluenza bassissima che registra un calo di quasi 21 punti percentuali rispetto al 2008, quando votò il 74,49% dell’elettorato. A dispetto di quanto affermato da Alemanno, che si dice speranzoso per il ballottaggio e dà al derby di Coppa Italia la colpa dell’astensionismo, i romani sembrano aver siglato un vero e proprio voltafaccia alla politica.

Un dato che preoccupa soprattutto quando si tratta di elezioni locali: interpretarlo significherebbe dover ammettere che gli italiani sono stanchi della politica al punto da non credere più nemmeno nell’onestà intellettuale e di intenti dei loro rappresentanti locali, non gli inarrivabili signorotti appollaiati sugli scranni parlamentari, ma i loro stessi concittadini, vicini di casa, amici e parenti impegnati in politica. Quelli da votare non per l’appartenenza al partito o il programma politico, ma perché “lo conosco, lo fa per passione”, “mi fido, andava a scuola con mio figlio”, “gli ho stretto la mano e abbiamo parlato, mi sembra davvero una brava persona”.

D’altronde, è questo il motivo per cui le elezioni locali raramente hanno rappresentato un pronostico attendibile per le elezioni politiche o uno specchio fedele della situazione nazionale, rivelandosi anzi spesso in controtendenza: ne furono una prova già le elezioni regionali del 2010, che registrarono una situazione di sostanziale parità tra centrodestra e centrosinistra nonostante il governo Berlusconi fosse, a livello nazionale, ormai dato per spacciato; per non parlare delle regionali 2005, che videro un vero e proprio trionfo della sinistra, con 12 regioni conquisatate su 14, che tuttavia diede il la alla formazione del Berlusconi III, il quale resistè un anno prima di lasciare il posto al Prodi bis.

Insomma, i dati che emergono dalle elezioni locali, la storia ci insegna, vanno presi con le pinze, soprattutto laddove si voglia usarli come tasta-polso della situazione politica nazionale.  In quest’ottica, la tiepida vittoria del Pd a queste amministrative potrebbe essere nient’altro che la testimonianza di un maggiore radicamento sul territorio dei politici di sinistra, che, si sa, a livello locale ha sempre partorito ottimi governatori.

Cosa che invece, a quanto pare, non è riuscita al M5S. Altro dato incontrovertibile che emerge da queste elezioni amministrative è una clamorosa disfatta di Grillo e del suo entourage, che in media non supera il 10% dei voti e resta escluso da tutti i ballottaggi, segno che il voto politico che ha fatto schizzare i consensi del M5S altro non era che un voto di rottura.

Così, mentre Grillo dichiara la morte del sistema partitico e spara a zero sull’Italia, a suo dire divisa in due e incapace di uscire dalla logica del bipolarismo, la sinistra vince al primo turno in cinque dei sedici capoluoghi di provincia chiamati al voto, e si conferma in vantaggio anche nei restanti 10 che si preparano al ballottaggio. Esemplare il caso della Capitale, dove Ignazio Marino, dato in vantaggio con il 42,8% dei voti, attende il 9 e 10 giugno per la sfida finale con Alemanno, fermo ad un 30,2% che nessuno riesce a spiegarsi come abbia fatto ad ottenere, dato che viene comunemente considerato “il peggior sindaco che Roma abbia avuto negli ultimi 50 anni” (come scrive Massimo Giannini su “Repubblica”.)

Un segnale, quello della parziale vittoria alle amministrative, che il centrosinistra giudica importante, segno di una ripartenza del centrosinistra che dovrebbe iniziare proprio dal territorio. Ma sarà così? Per ora si attende di capire in che modo questi risultati influenzeranno l’operato del governo Letta. Intanto, come fa notare sempre Giannini, l’Italia si trova dinanzi all’ennesimo paradosso: una sfida all’ultimo sangue tra Pd e Pdl alle amministrative che per l’appunto non riflette di certo la situazione politica del governo di larghe intese a livello nazionale.

G.G

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