L’anniversario della sua morte quest’anno ricorre proprio in concomitanza della vittoria elettorale, avvenuta appena il giorno prima, di Hugo Chavez, che si conferma per la quarta volta vincitore delle presidenziali in Venezuela. Chissà, visto come sono cambiati i tempi, se Ernesto Guevara (senza “che”, quell’intercalare che ripeteva così spesso e che divenne parte integrante, segno distintivo quasi irrinunciabile del suo nome) ne sarebbe stato contento.
Quando morì, fucilato dalle milizie boliviane sorrette dall’intervento della CIA statunitense, mentre tentava di estendere anche in Bolivia, o forse in Argentina, quel focolaio rivoluzionario che con tanto sacro ardore aveva bruciato a Cuba, seviziato per dare l’idea che fosse caduto in battaglia e occultare così i segni di un’esecuzione sommaria, ebbene quando morì, il suo cadavere, esposto come monito al pubblico a Vallegrande, diede origine al mito del cristo di Vallegrande, che ancora oggi attira in pellegrinaggio migliaia di “fedeli”. Certo Che Guevara non fu un novello Gesù Cristo. Ma credo si possa affermare, con altrettanta sicumera e senza correre rischio di blasfemia, che il portato simbolico del suo messaggio fu di eguale grandezza, e godrà, probabilmente, della stessa secolare risonanza.
Ernesto “Che” Guevara de la Serna nasce il 14 giugno 1928 a Rosario de la Fe, in Argentina. Il padre fa l’ingegnere civile. La madre, Celia, è una donna di cultura appassionata di letteratura francese; un’umanista, che al figlio trasmetterà la sua passione. Una famiglia agiata, della piccola borghesia sudamericana. L’infanzia del Che trascorre serenamente, tra gli studi portati a termine in casa con la madre e il pronto trasferimento a Cordoba per tenere a bada l’asma del piccolo. A nemmeno dieci anni, segue con trepidazione le vicende della guerra civile spagnola, che probabilmente getterà nella sua mente il seme destinato ad attecchire qualche anno dopo. All’università sceglie Medicina, più per spirito umanitario che per dedizione allo studio. In quegli anni si appassiona alla fotografia, e affina le sue letture, iniziate nell’adolescenza con le poesie di Neruda, i romanzi d’avventura e i trattati di psicologia. Ma ad aprirgli la mente sulla situazione geopolitica del continente americano è il viaggio intrapreso insieme all’amico 29enne Alberto Granados, che per tutto il 1951 lo porta dal Cile al Perù alla Colombia e al Venezuela.
“I diari della motocicletta” racconta questo percorso, materiale e concettuale, che portò Che Guevara a sviluppare quelle teorie illuminate che, convincendolo della necessità di una rivoluzione, lo resero l’incarnazione moderna dell’ideologia marxista. Un’Ibero-America libera e federata, che andava oltre le barriere geopolitiche tra gli Stati, e addirittura superava l’Oceano per unire tutti quei popoli accomunati da un sentire condiviso, nel segno del comunismo e della liberazione dall’oppressione capitalistica, incarnata dagli Stati Uniti. Questa fu l’idea visionaria che animò le battaglie del Che. Da quest’idea visionaria nacque la rivoluzione cubana contro il dittatore Fulgencio Batista (1953-1959), che portò Fidel Castro nel posto in cui si trova tuttora, al governo di Cuba, in una estenuante battaglia che fu in seguito il perno intorno al quale si avvilupparono i più intricati nodi della corsa agli armamenti, quella Guerra Fredda che vide fronteggiarsi USA e URSS, i due titani, in corsa per la spartizione del mondo. Da quell’illuminazione originaria nacque la successiva idea di esportare la rivoluzione negli altri paesi dell’America Latina, Panama e la Repubblica Dominicana, fino ad accarezzare il sogno di liberare la sua patria, l’Argentina.
Fedele agli ideali marxisti, Guevara percepì come tradimento la scelta dell’URSS di Nikita Khruscev di ritirare (1962) i missili da Cuba senza consultare Castro. Per contro, si avvicinò ancor più alla Cina maoista, di cui tentava di riprodurre nell’isola le strategie di sviluppo economico. Motivo per cui, alcuni critici sostengono, fu infine allontanato da Cuba e si ritirò dalla vita pubblica, per riapparire soltanto parecchi anni dopo, quando tentò di convalidare anche in Bolivia la sua dottrina del focolaio.
Ma, come la storia ci insegna, non tutte le rivoluzioni hanno successo. La missione boliviana fu un vero e proprio fallimento, dovuto anche al mancato appoggio del partito comunista nazionale, che terminò con la cattura e l’uccisione di Che Guevara. Si racconta che, al momento di giustiziarlo, il sergente Mario Teran non riuscì a sparargli così, a bruciapelo. Tanto era forte, quando il Che era ancora in vita, la rispettosa soggezione per la sua figura già allora leggendaria. Molti sostengono che il soldato fu quasi costretto a sparargli; altri ancora che ebbe bisogno di ubriacarsi. La versione più accreditata indica la mano del sergente come quella che sparò diversi colpi alle gambe, non mortali, e individua invece nell’agente Felix Rodriguez della CIA l’esecutore finale dell’assassinio. Il corpo fu ritrovato solo nel 1997, da una squadra di esploratori, e riposa ora nel Mausoleo di Santa Clara di Cuba.
La storia ci insegna che non tutte le rivoluzioni hanno successo. Alcune falliscono, tutte finiscono in un bagno di sangue. La storia ci insegna che non ci sono vincitori né vinti, quando a finire sono le vite umane. Ma la leggenda di Che Guevara suggerisce (e conferma) qualcosa di diverso: che le rivoluzioni possono avere successo, ma devono sempre partire dal basso. E che il trionfo di un ideale, se portato avanti in nome del bene collettivo, val bene la vita.
Giuliana Gugliotti
Riproduzione Riservata ®