Sulla questione Fiat legata in maniera inscindibile alla fenomenologia della globalizzazione, abbiamo letto cosa ne pensa Sartori e cosa diceva già nel 1993 lo stesso politogo: “A parità di tecnologia l’Occidente ad alto costo di lavoro è destinato a restare senza lavoro: le cosiddette società industriali avanzate diventerebbero società senza industria… In un’economia globalizzata il lavoro va ai poveri e i Paesi ricchi vanno in disoccupazione. Il localismo è miope e inaccettabile, ma il globalismo dovrà essere riformulato realisticamente come un processo multistep da perseguire con passi commisurati alle gambe. Al globalismo vero e proprio non arriveremo probabilmente mai (salvo che nei mercati finanziari) ma è possibile e auspicabile puntare a più ampi mercati relativamente omogenei. Tra il policentrismo di milioni di villaggi e l’acentrismo della retorica globalistica dobbiamo cioè puntare su un mondo oligocentrico strutturato per aree di mercato a tenore di vita pareggiabile. Non dobbiamo essere localisti ma nemmeno globalisti ingenui che perseguono un programma di miseria generalizzata secondo il detto «meglio egualmente poveri che inegualmente ricchi»”.
La realtà è che siamo davvero arrivati al capolinea. La nostra disoccupazione è strutturale, non congiunturale; visto che è dovuta alla “delocazione” del lavoro; e una ripresa senza occupazione deve stupire solo economisti rimasti indietro di decenni. In un mondo globalizzato il lavoro va dove costa meno. Pena il fallimento. Il caso della Fiat è emblematico. Piaccia o non piaccia alla Cgil e in particolare alla Fiom, Marchionne ha ragione, ed è lui che tiene il coltello dalla parte del manico.
Fiat sta per “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. Spero che anche Marchionne senta questo antico vincolo, e cioè che senza Torino, senza Mirafiori, la Fiat non è più Fiat. Però Marchionne è un manager che va dove deve, e fa quel che fa, per salvare la sua azienda. Mentre la Fiom è un sindacato reazionario che difende l’indifendibile, e cioè, come scrive Massimo Gaggi (Corriere, 2 gennaio), “conquiste inesorabilmente erose dalla realtà”. Come ha detto ragionevolmente Fassino, se io fossi un operaio della Fiat voterei la proposta Marchionne. Nel mondo il mercato delle automobili è saturo. Nei prossimi anni molti “piccoli” dovranno morire, e solo alcuni giganti sopravvivranno. Ci vuole molta malafede, oppure troppa fede ideologica, per non rendersene conto.
In fondo è la stessa Camusso a dire che “se venisse sconfitta la nostra idea di votare no, ma comunque anche se si ritenesse valido il referendum, si applicherà quell’accordo; come ottempereremo allora alla nostra funzione di rappresentanza dei lavoratori, come ricostruiremo le condizioni del cambiamento? Questa la domanda che dobbiamo proporci proprio perché siamo insieme e vicini. Insieme oggi nel giudicare, ma pronti ad interrogarci per traguardare un futuro dentro le aziende Fiat. Sicuramente possiamo, vogliamo, dobbiamo incontrarci per fare insieme le riflessioni che la vertenza propone a tutti noi”.
Di contro l’ad della FIAT Sergio Marchionne ha replicato che “In qualsiasi società civile quando la maggioranza esprime un’opinione anche con il 51%, la minoranza ha perso. È un concetto di civiltà comune. Quando si perde si perde. Io ho perso tantissime volte in vita mia e sono stato zitto. Sono andato avanti e non ho reclamato. Se venerdì vince il sì ha vinto il sì e il discorso è chiuso. Non possiamo fare le votazioni 50 mila volte. Capisco che nessuno voglia perdere, ma una volta che ha perso ha perso”.
Vincenzo Branca
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