Paolo Maurensig ha scritto: “La musica eleva i sentimenti e la stessa natura dell’uomo, ma le vie per arrivarci devono passare attraverso lo stridore, il fragore, la dissonanza. Dietro la musica, eseguita con levità e perfezione, come la possiamo ascoltare nell’esecuzione raffinata di un quartetto d’archi, c’è l’attrito dei nervi che si contraggono, il fiotto del sangue, il tumulto dei cuori” (Canone Inverso, 1996). Parafrasandolo potremmo dire: dietro la musica dei Beatles, geniale e rivoluzionaria, si cela la figura di George Martin, produttore discografico della EMI che, pur restando sempre nell’ombra della sala di registrazione, contribuì incisivamente al successo del quartetto di Liverpool. E d’altronde si tratta di un processo che si ripete costantemente nella storia: dietro ogni grande figura di spicco si nasconde un manager, un motivational man, un sostenitore segreto che sapientemente miscela nelle giuste quantità quegli ingredienti che poi portano al successo. Questo fu il ruolo di George Martin per i Beatles: quello di un abile chef in grado di affinare, mescolare, togliere e aggiungere dove necessario quelle spezie indispensabili a trasformare un piatto grezzo in un raffinato capolavoro, in questo caso musicale.
Uomo di formazione classica – aveva studiato oboe e pianoforte – e di grande cultura, George Martin è stato un po’ il Socrate della “filosofia” beatlesiana: è una dote naturale, la sua, quella di vedere la statua laddove tutti non vedono altro che un pezzo di marmo, e di tirare fuori il meglio, maieuticamente parlando, da quei talenti grezzi e completamente a digiuno di teoria musicale, che erano i quattro ragazzini di Liverpool al loro esordio, prima di diventare famosi, come (blasfemo!) dichiarò John Lennon, “più di Gesù Cristo”. E, proprio come Gesù, per riprendere l’analogia della scandalistica affermazione lennoniana, anche i Beatles ebbero un padre spirituale, che quasi tutti gli amatori e gli storici della Beatlemania fanno coincidere con George Martin: è lui che si cela dietro i preziosi arrangiamenti di canzoni senza tempo come Yesterday, Eleanor Rigby e Penny Lane; fu George Martin che pazientemente, su insistenza di Brian Epstein, ascoltò le prime produzioni inedite dei Four, quando ancora non erano Fab, e seppe leggere, e poi trascrivere sugli spartiti, tra quei suoni sporchi e rozzi, melodie destinate a divenire intramontabili. Considerato a buon diritto il “quinto beatle”, George Martin fu l’artefice silente del successo dei Beatles, al cui servizio mise tutta la sua esperienza e conoscenza musicale. E i Beatles, insperatamente – non si aspettava, George Martin, di poterci ricavare più di un paio di singoli prima che i quattro cadessero nel dimenticatoio – ricambiarono il favore, trasformando George Martin, da produttore di una piccola affiliata della EMI, la Parlophone, destinata all’epoca alla produzione di artisti minori, in affermato manager del gruppo più famoso al mondo, che con lui incise tutti i suoi lavori, compreso Abbey Road, ultimo album da studio dei mitici quattro, che all’uopo richiamarono George Martin (che li aveva abbandonati dopo il White Album, stanco dei continui litigi interni alla band), a testimonianza di quanto il suo apporto fosse fondamentale in fase di raffinazione e incisione dei, seppur talentuosi, visionari pezzi ideati dai Beatles.
Eppure, George Martin fu sempre molto modesto quando gli fu fatto notare il suo indispensabile contributo alla nascita della stella beatlesiana: “I Beatles erano una fantastica band di quattro elementi che funzionavano magicamente insieme, molto di più che da soli. Uno finiva quello che l’altro aveva iniziato. Erano quattro menti inseparabili che facevano concerti, televisione, radio e ogni tanto andavano anche in studio. Dove c’ero io, che in quel momento ero parte della squadra. Senz’altro la mia opinione sui pezzi contava quanto la loro. Ma ero solo un piccolo ingranaggio di una grande macchina” ha dichiarato qualche anno fa il produttore in un’intervista per Vanity Fair, in occasione dell’uscita del disco tratto dal musical Love, nato dall’incontro tra 30 canzoni dei Beatles e il Circ du Soleil. Forse perché, ab originem, se fosse stato per lui, George Martin, non ci sarebbero stati i Beatles. Al loro primo incontro a Abbey Road, ennesima audizione per i quattro, già scartati da numerose altre e più influenti case discografiche, George Martin li ricorda come dei performer abbastanza scadenti. “La maggior parte dei loro pezzi era spazzatura, la cosa migliore – detto oggi fa un po’ ridere – era Love Me Do”. Ma George Martin, con fiuto infallibile poi rivelatosi estremamente prolifico, li scritturò ugualmente. Perché? Perché avevano “carisma, molto senso dell’umorismo, ed erano terribilmente affascinanti”. Oggi, a distanza di quella che sembra un’eternità dallo scioglimento dei Beatles, dalla morte di John Lennon e anche da quella più recente di George Harrison, George Martin, 84enne ancora attivo in ambito musicale, grazie anche all’aiuto del figlio Gilles, produttore come lui, è un po’ la memoria storica, insieme a Paul e Ringo, un rappresentante vivente della leggenda dei Beatles. Per i quali, anche nel ricordo, non smette di avere parole di affetto e di stima: “Non avevo preferenze, erano tutti molto diversi. Paul e John erano bravissimi compositori, si piacevano, erano come fratelli e contemporaneamente molto rivali tra loro. Ognuno voleva sempre superare l’altro. Ringo era una sicurezza, e George adorabile. Mi manca moltissimo”. Parole grazie alle quali i Beatles sembrano rivivere, oggi come allora, come erano all’epoca: quattro ragazzi con un sogno nel cassetto e la musica nel cuore.
Giuliana Gugliotti
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