Molti continuano, a distanza di secoli, a considerare Giordano Bruno un martire; uno scienziato punito dalla Santa Inquisizione per le proprie idee blasfeme, contrarie all’ordine divino – ma stabilito cristianamente dall’uomo – dell’universo. Tanti altri, soprattutto ecclesiastici, lo considerano tuttora un eretico, un peccatore da perdonare (“Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” Luca, 23.34), piuttosto che da condannare, come vuole una più moderna e caritatevole lettura delle Sacre Scritture. Giordano Bruno resta sicuramente, anche alla luce della filosofia contemporanea, una figura controversa e discutibile, una personalità storica difficilmente inquadrabile all’interno di una specifica corrente di pensiero, un contestatore, che continua a destare acri polemiche tra i suoi convinti seguaci e gli irriducibili oppositori. È un fatto che, a distanza di 400 anni, la sua dottrina filosofica non abbia ancora ricevuto una riabilitazione da parte della Chiesa Cattolica: accanto al profondo rammarico espresso da Papa Giovanni Paolo II (2000) per l’ingiusta morte del filosofo, arso vivo sul rogo degli eretici, non venne infatti la riabilitazione della sua opera filosofica, tutt’oggi considerata inconciliabile con i precetti cattolici. Un fatto che, nell’era della globalizzazione mondiale e della democrazia planetaria, fa venire la pelle d’oca a quanti si battono quotidianamente per preservare e affermare la libertà d’espressione e di pensiero.
Giordano Bruno non era, in verità, un uomo di scienza; le sue affermazioni non si basarono mai su riscontri scientifici, ma furono pure speculazioni della logica. Giordano Bruno fu piuttosto un metafisico, un uomo di cultura che, cresciuto in un contesto storico-culturale di profonda crisi dell’uomo rinascimentale, della fede e della dottrina ecclesiastica, troppo lontana dalle umane esigenze, tentò, potremmo dire in un’accezione moderna, di dare un senso agli stravolgimenti dell’epoca adottando un personalissimo, a tratti anticonformista, modo di guardare alla realtà. Nato a Nola (1548) da una famiglia di tradizioni militari, la sua infanzia trascorre serena in una umile dimora alle pendici del Vesuvio. È il vulcano a ispirargli, probabilmente, le prime riflessioni di carattere filosofico: l’ignoto nulla che, agli occhi del Bruno ragazzo, si celava alle spalle della montagna (che il giovane Giordano, al secolo Filippo, non mancò di esplorare spinto da un’atavica curiosità), si traspone idealmente nella sua ricerca della verità “oltre i sensi”, un concetto centrale della sua concezione filosofica, che sin da subito lo spinge a mettere in discussione l’allora dominante visione aristotelica: se il filosofo greco si affidava infatti al giudizio dei sensi, Bruno sostiene la necessità, in accordo con Platone, di andare oltre l’esperienza sensoriale, diffidando della stessa che, davanti al Vesuvio, l’aveva condotto erroneamente a ritenere a che al di là di quella imponente cima, che nascondeva l’orizzonte alla vista, nulla potesse esistere. Bruno si colloca così al crocevia tra l’idea platonica di Iperuranio, o mondo delle idee, dalle radici classiche, e la più moderna esigenza dell’uomo rinascimentale di esercitare, grazie alla facoltà dell’intelletto, il dubbio, quello stesso dubbio che sarà poi egregiamente concettualizzato da Cartesio come unico, indiscutibile segnale dell’esistenza umana – e divina. Una posizione scomoda, quella di Bruno, all’interno del percorso evolutivo della filosofia, che porta su di sé tutto il peso del difficile compito di imprimere una svolta, una “rivoluzione paradigmatica”, potremmo dire con Thomas Kuhn, alla tradizione filosofica dell’epoca. Un’epoca di conflitti, di contraddizioni, di perdita di valori. In un parola, un’epoca di necessità di cambiamento: un cambiamento espresso dalla “ribellione” luterana, che sottolineava quell’esigenza di ridurre la distanza, ormai apparentemente incolmabile, tra Dio e l’uomo, sua creatura, riscoprendo i valori ancestrali della dottrina religiosa, come la povertà, che la Chiesa Cattolica sembrava aver dimenticato; un cambiamento secolare, irto di ostacoli e resistenze, da molti (non solo Bruno) pagato con la vita.
Trasferitosi a Napoli per proseguire gli studi, Filippo Bruno prese, appena adolescente, i voti domenicani nel convento di San Domenico Maggiore, assumendo il nome monastico di Giordano con cui resterà nella storia. Una scelta, quella della vita monastica, che, stando alle testimonianze rese dallo stesso Bruno, non fu affatto motivata dalla fede, quanto piuttosto dal desiderio di coltivare e accrescere la propria cultura e formazione umanistica. È negli anni del convento infatti che si verifica il prolifico incontro tra la viva mente di Giordano Bruno e i testi (allora proibiti) di Erasmo da Rotterdam e Niccolò Copernico: letture che aprono al giovane filosofo la strada della Riforma Protestante, di quello scisma religioso, cui si accompagnò una rivoluzione culturale forse senza precedenti, il Big Bang da cui nasce tutta la cultura moderna. È a partire da quelle letture che probabilmente prende forma l’idea, più vicina al sentire di un popolo all’epoca tagliato fuori dalla religiosità a causa dell’ignoranza del latino (unica lingua in cui era possibile leggere la Bibbia; la prima fu tradotta da Martin Lutero e stampata da Gutenberg proprio in quegli anni) e dell’impossibilità di accedere al costoso mercato delle indulgenze, di un Dio immanente, presente in ogni manifestazione vitale, e allo stesso tempo capace di trasferire la propria caratteristica di infinità alle proprie creazioni; e di una fede da ricercare, all’interno di un percorso concepito come una “caccia”, grazie all’esercizio dell’intelletto, attributo tipicamente umano. Una visione fortemente in contrasto con quelle cattolica della trascendenza di Dio, della finitezza del Creato e del dogma della fede. Con Bruno (prima ancora che con Galilei), figlio della rivoluzione copernicana, a cui la storia ha affidato il pesante fardello della diffusione – filosofica – delle scoperte – scientifiche – di Copernico, l’essere umano subisce il primo grande lutto della sua storia: l’inevitabile perdita della propria centralità in un universo infinito.
Costretto alla fuga da Napoli per le sue idee dubbiose circa la natura della Sacra Trinità, già all’epoca tacciate di eresia, Bruno iniziò una vita di peregrinazioni che, nell’arco di quindici anni (1576-1591), lo condusse a viaggiare attraverso tutta l’Europa (dall’Italia, alla Francia, all’Inghilterra alla Germania), raccogliendo fecondi spunti per la sua teorizzazione filosofica, abbracciando tutte le fedi cristiane, tra cui quella calvinista, e subendo altrettante scomuniche, fino al suo rientro in Italia, a Venezia (1592), che lo vide protagonista di un processo durato otto anni. Otto anni al termine dei quali, resosi conto dell’inutilità di un’abiura, che gli avrebbe salvato la vita, ma non restituito la libertà, Bruno salì sulla pira, la mordacchia sulla bocca per impedirgli di parlare, ma fermo nella scelta di non ritrattare le proprie idee, e andò a testa alta incontro alla morte, nella lungimirante certezza di guadagnarsi, con essa, quella vita eterna che mille indulgenze non avrebbero potuto comprare.
Giuliana Gugliotti
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