Leggere è un po’ come esplorare mondi nuovi.
Ascoltare voci sussurrate di vite vissute, o che avrebbero potuto esserlo, conoscere persone e personaggi, stare a guardare l’evoluzione delle storie. Così è accaduto tra me e Heinrich Barth: Riszard Kapuściński ci ha presentato. Mentre leggevo “Ancora un giorno”, mi sono imbattuta in questo nome. Heinrich Barth, esploratore tedesco del Diciannovesimo secolo.
È stato un po’ come trovare un’oasi nel deserto.
O come quando un amico vi presenta un suo amico nella certezza che vi piacerete.
Purtroppo però, l’amico in questione si è rivelato abbastanza sfuggente, o meglio: difficilmente si rintracciano notizie di lui, Heinrich Barth, forse in assoluto il primo esploratore del continente africano a essere contemporaneamente un professore universitario, un uomo colto, tollerante verso la diversità, interessato – per scopi antropologici, più che commerciali – a conoscere le culture indigene e a esplorare l’ignota immensità dell’entroterra africano.
Il motivo di questa grande assenza è presto detto: come spiega lo storico e filosofo Francesco Lamendola, i nomi dei grandi esploratori della metà dell’Ottocento furono indiscriminatamente rimossi dai vocabolari colti dei circoli più “progressisti”, perché ritenuti pionieri dell’era della colonizzazione. Una rimozione che perdura nei secoli, tanto da sbarrare l’accesso, a Heinrich Barth come ad altri suoi colleghi, anche al moderno oceano informatico. Eppure, qualche notizia di Heinrich Barth, anche se scarna, è ancora reperibile: forse la sindrome dell’esploratore, quella smania di spingersi oltre i confini del mondo conosciuto per addentrarsi nelle ostili asperità di terre ignote, gli ha permesso di sfuggire – dopo e nonostante la morte – all’oblio totale.
Heinrich Barth nasce (1821) ad Amburgo, nell’attuale Germania, all’epoca non ancora unificata politicamente. Studia all’Università di Berlino, dove manifesta una innata propensione all’apprendimento delle lingue, imparando, oltre a francese, inglese, spagnolo e italiano, anche l’arabo, che gli tornerà utile durante i suoi lunghi, solitari viaggi nelle interiora africane. A ventiquattro anni (1845) esplode la passione per l’Africa. Dopo un breve soggiorno nei paesi mediterranei, Barth decide di intraprendere la carriera di esploratore: sbarcato a Tripoli, attraversa il deserto fino alle sponde del Nilo, rischiando la vita per mano dei predoni, e guadagnandosi allo stesso tempo una certa reputazione nell’ambiente coloniale, tanto da suscitare l’interesse del Ministero degli Esteri britannico, che lo ingaggiò (1849-50) per una spedizione – dagli intenti chiaramente commerciali – in Sudan Occidentale e nel Sahara. Se infatti la fase iniziale della colonizzazione dell’Africa aveva visto gli europei stanziarsi e costruire roccaforti commerciali lungo le zone costiere, tuttavia il “cuore di tenebra”, per dirla con Conrad, del continente nero ammaliava – e terrorizzava a un tempo – i colonizzatori, esercitando sulle fantasie europee un’attrazione quasi magnetica, con la vaga promessa di scoperte favolose e inestimabili tesori. In quest’ottica, la conquista del Sudan avrebbe aperto agli inglesi le porte degli allettanti mercati arabi, nascondendo chissà quali altre meraviglie e risorse.
Capitanata dall’inglese James Richardson e composta inoltre da Adolf Overweg, l’ambiziosa missione inglese, partita da Tripoli, fu ben presto decimata: la “morte africana” si prese prima Richardson, poi (1853) Overweg, lasciando all’impavido Barth il compito di esplorare le acque lagunose del lago Ciad, fino al Niger e a Timbuctù, dove Barth rimase sei mesi, raccogliendo un’infinità di materiale sulla fitta rete di commerci che si stendeva intorno alla “regale città del deserto”. Materiale su cui si fondarono tutti i successivi studi e ricerche, e che tutt’oggi è alla base della conoscenza europea di quella zona dell’Africa. Solo molto tempo dopo (1855) Barth si decise a intraprendere il faticoso viaggio di ritorno attraverso il Sahara, in direzione Tripoli: quando vi arrivò, Heinrich Barth aveva trascorso sei anni nell’entroterra africano, durante i quali aveva percorso oltre 20mila chilometri, unico europeo in grado di resistere tanto a lungo in compagnia degli indigeni, un viaggiatore solitario minacciato costantemente dagli assalti dei predoni nomadi e esposto ai pericoli della natura selvaggia.
Le sue memorie di viaggio, raccontate, con un’accuratezza di dettagli e un’acutezza senza precedenti, nel libro Travels and Discoveries in North and Central Africa; 1857–1858, custodiscono ancora oggi tra le loro pagine il senso di dedizione, l’interesse antropologico, l’amore profondo per la scoperta e il desiderio di avventura che animarono Heinrich Barth nei suoi viaggi.
Rientrato a Londra (1855) e successivamente trasferitosi in patria, a Berlino, dove accettò un incarico universitario, Barth morì a soli 44 anni. Se fu la stanchezza esistenziale accumulata durante i suoi lunghi pellegrinaggi oppure il “mal d’Africa a ucciderlo non è dato saperlo. Una cosa è certa: Heinrich Barth ha tracciato, come mai europeo aveva fatto prima d’allora, un ponte massiccio tra Europa e Africa, geografico, ma prima di tutto umano, su cui tutti gli europei che proseguono nella difficile opera di intessere relazioni – commerciali, politiche e culturali – con l’Africa, continuano tutt’oggi a camminare.
Giuliana Gugliotti
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