Può la disabilità trasformarsi in un dono di inestimabile ricchezza per guardare il mondo da una prospettiva inaspettata? La risposta è si. O almeno, questo è il caso di Henri Tulouse de Lautrec, pittore francese avanguardistico e post-impressionista, nano e alcolizzato, amico delle prostitute e frequentatore dei quartieri più malfamati della Parigi bohemién, che guardando dal “basso” del suo metro e mezzo ha saputo restituire ai posteri l’immagine di un mondo fantastico e strabiliante, dissacrante e sproporzionato, uno spaccato della realtà delle atmosfere dell’epoca che senza la sua opera sarebbe andato irrimediabilmente perduto.
Henri Tulouse de Lautrec (1864-1901) nasce sotto la cattiva stella del matrimonio tra consanguinei, ultimi esponenti di un ceppo nobiliare oramai in estinzione e vittime, da generazioni, dell’infausta abitudine di tramandare i propri geni oltre ogni possibile anomalia: l’aspetto infantile di Henri, tanto grazioso da essere soprannominato “gioiellino”, trae in inganno celando all’occhio esterno le varie malattie congenite da cui è affetto. Un’avaria genetica che si renderà evidente soltanto più tardi, e cioè quando, in seguito a due cadute, all’età di quattordici anni Henri si rompe entrambe le gambe: a causa della picnodisostosi, le ossa smettono di crescere, e lo relegano per sempre negli inferi della sua statura, che mai superò il metro e cinquanta, gettandolo di botto nel mondo della deformità: Henri rimane storpio a vita, un nano con un busto da adulto troppo pesante, innestato sulle gambette ossute di un adolescente mai cresciuto. Deriso dai coetanei e additato in società, il giovane Henri si ritira ben presto su se stesso, iniziando un’esistenza solitaria e schiva: è così che Henri scopre la pittura.
I suoi esordi artistici già profilano l’interesse per la figura che sarà centrale nella sua opera pittorica: lo sfondo, i paesaggi e gli ambienti interni non catturano l’attenzione dell’artista, concentrata invece sulla raffigurazione dei personaggi. Dalle pennellate rapide e nervose degli inizi d’influenza impressionista, alle illustrazioni pubblicitarie dai tratti decisi e fermi ispirati alle tecniche di disegno giapponese, la figura è sempre in primo piano, ferma o in movimento, di spalle o frontale, a testimoniare l’interesse antropologico che Tulouse de Lautrec nutriva nei confronti delle persone, dei costumi e della società, cui egli sentiva di appartenere solo per metà, un osservatore esterno intento a cogliere momenti di una quotidianità – una normalità – che per un disabile è spesso un pallido miraggio.
Incoraggiato dalla famiglia a seguire la vocazione artistica, diciottenne esprime il desiderio di frequentare l’Ecole des Beaux Arts: l’incontro con Montmartre, quartiere malfamato della Parigi di quegli anni, fu uno dei più fecondi per la carriera dell’artista. La vita di strada e l’atmosfera dei bordelli e dei locali di cabaret colpiscono Lautrec in modo divampante, lasciandogli impressioni colorate e passionali: le stesse che trasporrà su svariate tele, destinate a fare la sua fortuna. A smuovere il suo talento non è certo la condanna morale, né tantomeno la sollecitudine umanitaria: ciò che affascina l’artista è al contrario l’euforico eccesso di vita che anima quei luoghi di perdizione, in cui lui, emarginato tra gli emarginati, non può che trovarsi a proprio agio.
Conosciuto da tutti nel quartiere, tanto da essere soprannominato “l’anima di Montmartre” , le prostitute furono sue modelle e compagne di vita. Nessuno come Lautrec seppe descrivere la genuinità e l’allegra, alticcia euforia di quei bassifondi, in cui anche una puttana riesce ogni tanto a essere felice. Ed è così che Lautrec dipinge le sue muse: sorridenti e dimentiche, come lui le vedeva, capaci di offrire e suscitare amore nonostante la loro condizione certamente disagiata. Alcolista e malato di sifilide, Henri Tulouse de Lautrec morì a soli trentasette anni, una candela storpia che brucia troppo in fretta. Ma la sua anima, per chi crede che un’anima esista, non ha mai abbandonato quei luoghi, su cui certo aleggia ancora, uno storpio, dispettoso spirito protettore.
Giuliana Gugliotti
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