9 marzo 1883. Nasce a Trieste uno dei più grandi letterati del Novecento: Umberto Poli, meglio conosciuto come Umberto Saba. Proveniente da famiglia benestante, di origine ebraica, il poeta sperimentò ben presto sulla sua pelle il significato più profondo della parola “abbandono”. Il padre, Edoardo Poli, vanesio e incapace di rinunciare alla ricerca del continuo piacere in nome della famiglia, abbandonò la madre prima della sua nascita.
Per i primi tre anni il poeta visse con l’amata balia, Peppa Sabaz, che egli stesso definì “madre di gioia”. La donna allevò il bambino con amore e, quando la madre lo rivolle con sé, il distacco dalla donna costituì un vero e proprio trauma. I tristi eventi dell’infanzia segnarono profondamente il carattere dell’adulto, malinconico e soggetto a vere e proprie crisi depressive.
Ai tristi eventi personali si aggiunsero quelli esterni, dovuti allo scoppio delle due grandi Guerre. All’alba del secondo conflitto mondiale, il poeta fu costretto a lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali e poté farvi ritorno solo nel 1939, dove si spostò tra Roma e Firenze aiutato da amici come Ungaretti, Montale e Carlo Levi. Negli anni del dopoguerra si trasferì a Milano, dove visse per dieci anni, tornando periodicamente a Trieste. In quegli anni di assoluta precarietà e depressione, tre grandi certezze: l’amore per la poesia, per la moglie Lina e per Trieste. Amori che non l’abbandonarono mai, fino alla sua morte, il 25 agosto 1957.
Tra le sue tantissime opere ricordiamo: “Coi miei occhi” (1912), “Cose leggere e vaganti- L’amorosa spina” (1920), “Preludio e canzonette” (1922), “Autobiografia. I Prigioni” (1923), “L’uomo” (1926), “Tre composizioni” (1933), “Poesie dell’adolescenza e giovanili” (1949) ed “Ernesto”, rimasto incompiuto e pubblicato postumo, in cui Saba affronta il tema dell’omosessualità.
La poesia di Saba è una poesia semplice, nel senso più nobile del termine. I suoi versi nascono dal basso, attingono alla fonte più profonda dei sentimenti umani e riemergono limpidi, senza troppi lustri e finzioni. Il vissuto dell’autore non è celato, ma offerto al lettore con assoluta umiltà. E’ questa una dote di pochi: rendere universali esperienze individuali, con la scelta accurata di parole che – piane – hanno la capacità di arrivare dirette all’anima dell’interlocutore. La poesia di Saba scorre lineare, senza paura di mostrare anche le debolezze proprie dell’uomo, di ogni uomo.
Una delle poesie che io preferisco è: Mio padre è stato per me “l’assassino”.
Terzo sonetto di Autobiografia ha come protagonista il padre, incontrato per la prima volta a vent’anni. Per tutto il periodo dell’infanzia il poeta aveva ascoltato la madre parlare del padre in termini durissimi. L’uomo era divenuto nell’immaginario materno un vero e proprio “assassino” che non solo aveva distrutto la famiglia, ma anche le speranze della sua giovinezza. Saba cresce portandosi dietro quell’immagine negativa del genitore fino a quando lo conosce e lo scopre straordinariamente simile a se stesso, non soltanto nei tratti fisici, ma anche nella mutevolezza d’animo. Tutta la sofferenza provata dal bambino per quell’abbandono viene compresa dall’adulto, che riconosce ai genitori una diversità di temperamento tale da rendere inevitabile qualsiasi comprensione o convivenza. Saba comprende, ma resta condannato a portarsi dentro una grave inquietudine dovuta al conflitto tra l’amore verso il padre – con cui scopre affinità e caratteristiche comuni – e la rabbia per essere stato abbandonato nell’età in cui la figura paterna era tutto ciò di cui avrebbe avuto realmente bisogno.
Mio padre è stato per me “l’assassino”
Da Autobiografia
Mio padre è stato per me “l’assassino”,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre.”
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.
Emiliana Cristiano
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