Il giornalismo italiano oggi

Qualche tempo fa, navigando in Internet, mi imbattei in una commovente lettera di risposta, pubblicata su un Grande Giornale Nazionale da un Grande Giornalista Italiano, a un giovane di belle speranze che aveva scritto alla redazione confidando il suo sogno di diventare giornalista e chiedendo consigli in merito. La risposta del Grande e Arrivato Giornalista in questione, comodamente ancorato alla sua calda poltrona, di cui ora non ricordo il nome, suonava più o meno così: anche se difficile, anche se teoricamente impossibile, non bisogna mai rinunciare ai sogni, perché se uno ci crede davvero prima o poi i sogni si avverano. Un’immagine romanticamente piena di speranza, non c’è dubbio. Un appello accorato che invita i giovani a lottare con perseveranza per raggiungere i propri obiettivi, a non lasciarsi scoraggiare dai fallimenti e dai rifiuti, dalle prevaricazioni dei potenti e dalle vittorie degli incompetenti con qualche conoscenza “in alto”, perché se c’è talento prima o poi verrà pure l’affermazione. Già, il talento. Un requisito fondamentale per emergere. Eppure chissà perché oggi tanti giovani talentuosi si vedono in mezzo a una strada.

In cosa consiste secondo voi il talento di un giornalista? Nel fiuto per la notizia? Sicuramente. Nella predisposizione al sacrificio (intellettuale ed economico)? Anche. In una discreta capacità di scrittura? Indubbiamente. Ma la caratteristica che maggiormente dovrebbe contraddistinguere un buon giornalista è la capacità di pensare con la propria testa. “Argomentare” viene immediatamente dopo “informare” nella scala di valori e compiti di un giornalista. E argomentare significa non perdere mai di vista il proprio spirito critico. Come affermava Edgar Monroe: “Non importa chi dà la notizia per primo, importa chi la spiega meglio. Non importa lo scoop del giornalista, bensì saper bene spiegare al lettore che cosa è successo”.
Un consiglio che è diventato utopia nei tempi moderni. Oggigiorno le priorità del giornalismo (italiano) sembrano rovesciate: in una società globalizzata e consumistica, anche la notizia passa subito di moda. L’approfondimento è un gadget non più necessario, relegato ai margini di talk show che mirano piuttosto alla spettacolarizzazione della cronaca e alla vittimizzazione dei suoi protagonisti, oppure a editoriali politici dai toni decadenti e nostalgici, carichi di metafore romanzate che poco hanno a che vedere coi fatti. Quello che conta è colpire, affascinare, stupire, indignare il pubblico. Non scuotere le coscienze, ma infiammare gli animi di sentimenti primordiali, segnando una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi, in cui non c’è più spazio né per la riflessione né per la costruzione di un’opinione da parte di chi legge. Né tantomeno da parte di chi scrive.
Diventare giornalista oggi significa piegarsi alle regole di mercato, aderire passivamente alla linea editoriale della testata per cui si lavora, che a sua volta aderisce (quasi sempre) ai diktat politici del partito finanziatore o “simpatizzato”. La sistematica uccisione dello spirito critico.
In Italia siamo molto lontani dall’illusoria conquista di un giornalismo indipendente. Come affermò Gianni Riotta, facendo un parallelismo tra la stampa italiana e quella statunitense in una puntata di qualche anno fa de Il Grillo, programma televisivo di scienze umane realizzato per Rai Educational in collaborazione con gli studenti delle scuole superiori: “La vera libertà di stampa, qui da noi, comincia negli ultimi dieci, quindici anni, ma si tratta di una stampa molto vicina ai gruppi di interesse politico-economico, mentre negli Stati Uniti essa è un potere economico a sé. Gli editori del New York Times creano la propria ricchezza vendendo la libertà di questo quotidiano, come quando si vende un panino; ne vendi tanti se il panino è buono e il New York Times si vende perché è un buon giornale”. E che cosa fa un buon giornale? Prima di tutto, spiega i fatti. In secondo luogo argomenta le posizioni dei contendenti/litiganti, esemplificando potremmo dire di maggioranza e opposizione, in merito ai fatti stessi, prendendo le distanze da quanto viene detto da una parte e dall’altra. In terzo luogo, forgia le coscienze, offrendo eventualmente al lettore una rotta che indichi la via su cui proseguire la riflessione per farsi un’opinione personale, e mettendo bene in chiaro che si tratta di una sola tra tutte le rotte perseguibili.
Che cosa fanno invece i giornali italiani? Provate a leggere un qualunque articolo di un qualunque quotidiano su un argomento già da qualche giorno sotto i riflettori dell’opinione pubblica (Antonio Calafati, docente di “Analisi delle politiche pubbliche” all’Università Politecnica delle Marche ci ha provato – era il 2005 – con gli studenti del suo corso: il risultato della sua analisi, alla ricerca delle “ragioni pro-TAV” nei tre quotidiani nazionali più letti, pubblicato sul blog di Beppe Grillo, è stato a dir poco desolante: http://www.beppegrillo.it/immagini/tav_a.pdf). Se non avete seguito la vicenda dall’inizio, difficilmente riuscirete a capirci qualcosa. Il giornalista di turno non farà che riportare dichiarazioni di questo e quest’altro esponente/portavoce della vicenda, dando per scontata la conoscenza pregressa del lettore in merito ai fatti (la cultura di un lettore medio viene valutata quantomeno come enciclopedica! E soprattutto, dove e da chi sono stati preliminarmente enunciati questi fatti?), come in un romanzetto a puntate in cui ogni nuovo scoop sostituisce quello precedente, caduto nel dimenticatoio, e all’inizio di ogni puntata manca il riassunto delle puntate precedenti. Impossibile raccapezzarsi.
E il primo obiettivo, quello di “spiegare i fatti”, viene mancato.
In secondo luogo, come spiega Michele Loporcaro in un saggio (2005) sul giornalismo italiano dal titolo Cattive notizie. La retorica senza lumi dei mass media italiani, il giornalista italiano ha la malsana, estenuante abitudine a ricorrere al “discorso indiretto libero”, ovvero a citare opinioni e dichiarazioni altrui senza indicarne la fonte. In questo modo, l’identità stessa dello scrivente si perde in una identificazione “adesiva” con parole e idee altrui, che vengono quindi tacitamente avallate.
E anche l’obiettivo della “presa di distanza” dalla notizia si rivela fallimentare.
Infine, queste stesse dichiarazioni vengono accostate – o, per meglio dire, copiate e incollate – tra loro in maniera tale da formulare una precisa presa di posizione, che viene però mascherata da verità assoluta: l’argomentazione è del tutto assente, come lo spirito critico, eppure l’informazione che viene presentata al lettore come oggettiva e scevra di ogni manipolazione è già stata silentemente dirottata a favore di un polo piuttosto che dell’altro, grazie a una sapiente operazione di taglia e cuci. Una per tutte, valga la tecnica del “sandwich”, che – come spiega sempre Loporcaro – consiste nel far prevalere le dichiarazioni della maggioranza (o della minoranza, a seconda dei colori politici del giornale in questione) accostandole in quest’ordine: dichiarazione della maggioranza – dichiarazione della minoranza – ancora ribattuta della maggioranza. L’argomentazione della notizia non avviene quindi attraverso un percorso di riflessione critica, ma semplicemente sfruttando effetti di persuasione inconscia, ottenuti grazie alla troncatura nonché al modellamento della notizia a favore degli scopi che si intende perseguire.
Neppure il terzo obiettivo, quello di “formare le menti”, viene quindi raggiunto.
La propaganda prende il posto dell’informazione. Con il risultato di generare una solenne, profonda confusione nel lettore. Nanni Moretti non aveva poi tutti i torti quando diceva: “Comincio subito a tagliare e ritagliare, incollare e cucire, e mi accorgo che i giornali sono uguali, e soprattutto usano e si scambiano sempre gli stessi giornalisti. C’è quello che scrive di politica su un quotidiano, di cinema su un settimanale di sinistra e di letteratura su un mensile di destra; c’è quell’altro che scrive contemporaneamente sul Corriere della Sera, su un settimanale femminile e su un mensile delle Ferrovie dello Stato; e, naturalmente, vignette e satira politica ovunque, perché la satira non ha padroni, quindi sta bene sotto ogni padrone. Insomma, un unico, grande giornale”.

Ora, tornando alla domanda iniziale, vi chiedo ancora: in cosa consiste il talento di un giornalista? e soprattutto: un giornalista che abbia talento potrà mai affermarsi in Italia? La risposta è no. Perché il giornalismo italiano non ha bisogno di giovani che pensino con la propria testa, ma di semplici esecutori materiali pronti a sacrificare ideali e personalità al servizio del potere.
Ma, come tutti i lettori arguti a questo punto avranno capito, questa è solo la mia personale opinione. Non una verità assoluta, ma solo una delle tante interpretazioni possibili della reale situazione del giornalismo italiano contemporaneo.

Giuliana Gugliotti

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